Julio Cortázar, le avventure di un bambino sotto il lenzuolo

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo uno stralcio dell’inedito in Italia Diario di Andrés Fava (Voland, pagg. 98, euro 12; in libreria nei prossimi giorni) del grande scrittore argentino Julio Cortázar (1914-1984).

Un cielo basso, bianco, traslucido, talmente schiacciato su di me che se muovo la testa lo sento nei capelli, nelle orecchie. Non è il cielo, è il lenzuolo del mio letto d’estate. Ho dieci anni e viaggio dentro il mio letto. Segreta delizia dell’incontro con il mio corpo, la sua geografia sotto la luce lattiginosa, sotto il calore fragrante. Coperto dal lenzuolo, rannicchiandomi poco a poco per avanzare con precauzione di amateur verso la parte più centrale e più nascosta; accettando quella realtà interamente mia (e non creandola, non è vero che il bambino crei il suo mondo in quanto creare presuppone coscienza di creazione; il bambino crea il suo mondo come l’albero le sue fronde). Allora sganciarsi dalle piccole miserie della convalescenza, del ricordo o del presentimento delle medicine, degli errori a scuola, il vago orrore di tutto ciò che è dovuto e di tutto ciò che è minacciato. Solo, nel suo regno piccolo e chiaro, sotto il suo velario petulante, il bambino accedeva al viaggio perfetto, alle avventure di raffinato giornale di bordo e stellate sconfitte.
Lì c’era uno spazio ostile ma stranamente conciliante, dove i pericoli non minacciavano davvero anche se la loro presenza richiedeva la lotta, il calcolo d’occhio sagace, il saper cogliere l’attimo. Due guerrieri camminavano con il bambino mettendolo in guardia da trappole e messaggeri; le sue mani crescevano nel paesaggio interiore, macchiato di ombre muschiate (il mio pigiama verde!), improvvisamente indipendenti dai compiti formali, dall’essere nient’altro che mani. Ragni, tende da campeggio, grassi lanzichenecchi, microscopici cavallini, i due andavano e venivano deliziosamente, e il bambino inventava guerre per il suo doppio esercito: battaglie di mani che duravano ore (ore di cielo di lenzuola, perché lì io avevo il mio tempo, la mia luce e la mia volontà). O non guerreggiavano, semplicemente Burke, Stanley, il pallido Shakleton – ho sempre pensato Shakleton pallido e Nansen enorme – e il mio corpo servile, quieto e goffo, che era Niger, Victoria Nyanza, Spitzberg; golfo e caletta, si perdeva nella penombra oltre le ginocchia, giungla per un ultimo sforzo, inarcato fino a raggiungere, soffocandomi, la terra incognita del mio mondo, l’istmo biancastro delle mie deboli caviglie.
Mitologia del letto, con i suoi Jabberwockies e i suoi seleniti. Senza saperlo bene, avevo il sospetto che il mio lenzuolo mi salvasse da una realtà ugualmente piena di delizie ma a un tratto minacciata da seccature, da doveri penosi, da vergogne, dall’atroce schiavitù dell’infanzia in balìa dell’affetto e dell’educazione. Come un’enorme palpebra chiara, mi bastava abbassare il lenzuolo su tanta smembrata sensibilità per sentirmi libero, percorso da un sognare più bello del sogno perché ammetteva di essere inventato e diretto. Ora sospetto che i miei giochi fossero onirici, che il meglio delle loro luci, delle loro scoperte e delle loro peripezie si dovessero alla stessa invenzione che illumina i sogni meritevoli di ricordo.

(Già uomo, quando sognai la storia del Banto – che ho raccontato da qualche parte – lo scenario di tropici e foresta aveva le stesse qualità un po’ liquide di vegetazione da vasca dei pesci che mi davano il mio pigiama, i miei occhi socchiusi, la luce tra il rosa e il grigio del lenzuolo, e il calore era quel calore del corpo che sa di flanella, di trentasette e quattro e di Vicks Vaporub, dei molti rimedi per l’asma e la bronchite, e il Banto – una bestiolina, un insetto sognato – era come una delle mie mani, di quelle cose che si muovevano nel mio mondo e mi portavano notizie e resoconti.)

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