Stenio Solinas
nostro inviato a Cannes
«Se sappiamo dire la verità sul nostro passato possiamo dire la verità sul nostro presente». Commosso e frastornato Ken Loach ringrazia la giuria che lo ha appena premiato con la Palma d'oro e il pubblico che in piedi lo applaude con fragore. Qualche istante prima, nello spiegare le motivazioni, Wong Kar Wai, il regista cinese di In the Mood for Love e di 2046, ha sottolineato non solo l'unanimità della scelta ma, come dire, il sentimento e il grido di libertà che dal film di Loach proviene. Wong Kar Wai è considerato un autore calligrafico, più incline alle atmosfere rarefatte e ai silenzi che non a quello che ben si può definire «cinema politico»: la scelta sua e dei giurati, dunque, sottolinea ancor più l'eccezionalità di The Wind that shakes the Barley.
Cercando con gli occhi la moglie e il figlio che siedono felici in platea, Loach non sembra nemmeno accorgersi della bellissima Emmanuelle Béart che in un completo rosa gli consegna la Palma: «È il più bel festival del mondo», ripete «e non mi stancherò mai di ringraziarvi».
Seduti su delle sedie color oro, con alle spalle una scenografia che trasforma la città di Cannes in un set avveniristico, i membri della giuria, come ha sottolineato Vincent Cassel, cerimoniere della serata, incarnano perfettamente lo spirito cosmopolita della manifestazione: c'è la nostra Monica Bellucci, opulenta nella sua mise in rosa, la sottile attrice cinese Zhang Ziyi e la paffuta inglese Helena Bonham Carter in nero, la regista argentina Lucrecia Martel, il regista palestinese Elia Suleiman e quello francese Patrice Leconte, l'attore americano Samuel L. Jackson e il britannico Tim Roth, il già citato Wong Kar Way. Davanti a loro la platea delle grandi occasioni, con star vecchie e nuove: Ursula Andress, scollata in rosso, Fay Dunaway in smoking nero e camicia bianca, sapientemente liftata e di nuovo bella, Anouk Aimée con lo sguardo intenso di un tempo...
Scandita da un cerimoniale immutabile e che pure ogni anno appare come nuovo, la serata si snoda partendo dai premi minori e via via crescendo d'intensità. La Camera d'Oro va al romeno Corneliu Porumboiu, il miglior cortometraggio all'americano Bobbie Peers, ma è con il Premio della Giuria alla inglese Andrea Arnold per Red Road che l'atmosfera prende a scaldarsi, e tocca a Jean Rochefort, uno degli attori francesi più famosi e più popolari, dar fuoco alle polveri nel momento in cui viene chiamato a consegnare il premio per la migliore interpretazione femminile. «C'è un certo sadismo» confessa, «quando si deve premiare un collega, il gusto di farlo attendere prima di pronunciarne il nome, il piacere di sapere che altri non saranno nominati e perciò soffriranno. E poi c'è il masochismo di chi, come nel mio caso, sa che dovendo premiare non sarà premiato... A questo ho rimediato dandomi direttamente dei premi nel chiuso di casa mia e consolandomi perché, dovendo consegnare il riconoscimento per la migliore attrice, era difficile che potessi vincerlo io...» Quando l'intero cast femminile di Volver monta sul palco, Rochefort si dichiarerà rapito da tanta bellezza e bravura.
Se è la biondissima Diane Krugher, già Elena di Troia lo scorso anno, a fare da madrina per il premio del miglior attore, anche qui un intero cast, quello di Indigènes di Rachid Bouchareb, tocca al fantasioso Tim Burton, il regista di Charlie e la fabbrica di cioccolato e del Corpo della sposa, consegnare quello della miglior regia a Alejandro Inarritu per Babel. «Se lo dico ai miei figli, non mi crederanno», dice divertito quest'ultimo. L'attrice malese Michelle Lyeoh, quella dei Charlie's Angels, si incarica del Gran Prix per Flandres di Bruno Dumont mentre è il regista africano Souleymane Cisse a dare quello per la miglior sceneggiatura a Pedro Almodóvar sempre per Volver.
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