Igor Principe
Un semplice frammento, unora e un quarto estrapolata da quel Mahabharata che è summa di un pensiero millenario. E che, per il teatro, è summa del lavoro di un artista di nome Peter Brook. Il regista lo presentò ventanni fa al festival di Avignone; tra gli interpreti, uno dei suoi più fidati attori: Maurice Bénichou. Lo stesso che ora è di scena al Teatro Studio, e che domani pomeriggio (ore 15) darà vita allultima replica del frammento di cui sè detto, La mort de Krishna.
Sui manifesti che lo ritraggono nei panni del Grand inquisiteur - laltro lavoro, firmato sempre da Brook, che porta sul palco della sala di via Rivoli alternandolo alla Mort, e che concluderà venerdì 28 - Bénichou appare con lespressione severa e grandiosa di un tribuno allacme di unarringa, lindice puntato verso un imputato invisibile al pubblico ma non a lui.
Nella hall di un albergo del centro, lattore francese rivela un aspetto tuttaltro che grandioso: minuto nel fisico, rilassato, ha uno sguardo per nulla severo. Anzi, talvolta divertito. Come quando spiega che Krishna, centro nevralgico del suo monologo, è come Henry Kissinger: «Un negoziatore. Il suo lavoro è tenere in equilibrio sulla Terra il delicato rapporto tra bene e male. Non è come Bush, che intende far prevalere il primo sul secondo».
Da come lo dice, Bénichou lascia intendere che alla condotta dellattuale presidente americano preferisce la diplomazia dellex segretario di Stato. Chissà cosa direbbe se Bush volesse far prevalere il male sul bene. Ma allattore interessa tornare sul diplomatico, consapevole che una metafora tanto ardita richiede le dovute precisazioni. «Krishna è un dio guerriero che ha il dono della parola. È più vicino alluomo, a un Kissinger capace di trattare pur accettando lidea della guerra. Questo ho pensato quando mi sono avvicinato al personaggio, aiutato da un indiano che, vedendomi alle prese con le domande su quale forma dare alla mia interpretazione, mi ha suggerito solo tu puoi trovare le risposte».
Una risposta fuori dai canoni, ma che trova coerenza se si riflette nellimmagine di un Dio che non appartiene alla tradizione occidentale, poiché non è invisibile né compassionevole. «In questo ritrovo unimportante differenza con Le grand inquisiteur in cui appariva unimmagine di Dio molto vicina alliconografia classica, anche perché Antonin (Stahly, il musicista che in quella pièce interpretava il ruolo di Dio, ndr) gli somiglia molto. È un compagno di lavoro meraviglioso. Con quella faccia, ti aiuta a trovare subito una camera negli hotel».
Non è facile, in unora e un quarto, raccontare unepopea complessa e densa di simbolismo qual è quella di Krishna. Dalla storia delle famiglie Pandava e Kaurava, che si contendono il dominio del mondo, emerge tutta loriginalità del pensiero indiano, basato sul legame tra lequilibrio - il dharma - individuale e quello cosmologico. «Lesperienza non mi manca, sono passati ventanni dal Mahabharata e io sono invecchiato, somigliando nel fisico un po di più a Krishna. Rimane il doversi misurare con una narrazione che è quella del teatro di strada, quindi la più triviale e al contempo la più pura. Devo indicare tutti i personaggi, perché il pubblico entri nella storia».
Accanto allequilibrio stilistico, cè anche quello che ammanta il senso del racconto. «La sua ricerca riguarda loggi, ciò che facciamo ogni giorno per vivere. Non è ricerca di un equilibrio cosmico. Krishna è una guida per rintracciarlo, non promette la salvezza. Perché cè qualcosa di superiore che determina anche il suo destino: il tempo. Quando questo arriva, non cè scampo: si deve uscire di scena».
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