Cultura e Spettacoli

Kubrik, l’esteta del ’900 che sognava di girare un film su Napoleone

Da domani al Palazzo delle Esposizioni a Roma costumi, fotografie, attrezzature, cineprese e video per ricordare il genio del cinema del secolo scorso

Kubrik, l’esteta del ’900 che sognava di girare un film su Napoleone

Roma - Alla fine degli anni Settanta, quando Stanley Kubrick stava girando The Shining, circolava per Hollywood la seguente storiella: Steven Spielberg muore e va in Paradiso, ma San Pietro all'ingresso lo blocca. All'Onnipotente, spiega, i registi non piacciono. Mentre i due discutono, passa al loro fianco un tizio barbuto, calvo, vestito come un vagabondo. «Ma quello non è Kubrick?» chiede Spielberg. «No» risponde rassegnato San Pietro. «È Dio. Solo che è convinto di essere Kubrick».

The Shining giungeva cinque anni dopo Barry Lindon e da allora gli intervalli si sarebbero fatti sempre più lunghi: per Full Metal Jacket bisognerà aspettare altri sette anni. Per Eyes Wide Shut, undici. Ciò che fin dall'inizio era stata un'attenzione al particolare e a ogni singolo aspetto della lavorazione cinematografica, unita a una sempre maggior difesa della propria intimità, si era via via trasformato in un'ansia di controllo totale e in una sorta di autosegregazione che confinava con il gelo di una sterile immobilità. Ai tempi di Arancia meccanica, un giovane Bertrand Tavernier non ancora regista, ma già geniale pubblicitario, fu incaricato dalla Warner del lancio per il mercato francese. Fra telefonate, telegrammi, richieste di informazioni persino sul colore dei muri delle sale di proiezione selezionate, Tavernier andò in tilt e mandò un telegramma a Kubrick. «Mi dimetto Stop Come regista lei è un genio Stop Come datore di lavoro un imbecille». La Warner incorniciò il testo nella sala riunioni...

Adesso che nel rinnovato Palazzo delle Esposizioni di Roma si inaugura la mostra Stanley Kubrick (fino al sei gennaio) questo insieme di precisione maniacale, cura del dettaglio, attitudine al comando, genialità visionaria, fastidio per la normalità e i bisogni quotidiani, trova la sua più plastica rappresentazione nella sala dove è catalogato e presentato il film che più a lungo egli sognò di fare e che mai girò, quel Napoleone in cui, come in uno specchio, si riconosceva: la stessa logica da outsider, lo stesso fastidio per l'elemento umano non manipolabile, lo stesso piacere estetico legato al fenomeno bellico.

Costruita da Hans-Peter Reichmann lungo un percorso cronologico, l'esposizione, che si è avvalsa dell'aiuto dell'Archivio Stanley Kubrick, racconta la vita e le opere di quello che Kirk Douglas definì, in un momento d'ira, «una merda di talento». La rabbia dell'attore era in qualche modo giustificata: pensava che Spartacus fosse il suo film e che il trentenne Stanley gli dovesse una qualche riconoscenza per averlo chiamato a sostituire, come regista di un kolossal in costume, Anthony Mann. Si sbagliava. Come dirà anni dopo Malcolm McDowell: «Se Kubrick non avesse fatto il regista, sarebbe stato capo di Stato maggiore dell'esercito degli Stati Uniti. Anche se si tratta di comprare uno shampoo, la decisione deve essere sottoposta a lui. Gli piace avere il controllo totale». E di certo Kubrick avrebbe fatto propria la dichiarazione sul cinema del suo collega Sam Fuller che suona così: «I film sono un campo di battaglia. Amore, odio, azione, morte. In una parola, emozione».

Dei dodici film realizzati in circa mezzo secolo di attività, senza contare i primi documentari e un paio di lungometraggi ripudiati, la mostra dà conto con pazienza certosina e attraverso un insieme eterogeneo di materiali: costumi e sceneggiature, scenografie e video, scambi di lettere e testimonianze di attori e registi, ritagli di stampa e locandine, macchine da presa e attrezzature, ricostruzioni d'ambiente... Ma c'è anche spazio per le sue origini come fotografo, il più giovane, appena diciottenne, della rivista Look, con già la capacità di mettere in sequenza le immagini come fossero una storia che non avesse bisogno di parole... Gli appassionati di 2001 Odissea nello spazio troveranno il necessario per poter addirittura «entrare» nel set, quelli del Dottor Stranamore potranno porsi la stessa domanda del neo presidente Ronald Reagan al suo esterrefatto capo del cerimoniale: «Qui alla Casa Bianca, dov'è la Stanza della guerra che ho visto in quel film?»... Tuttavia le nostre preferenze vanno alla struggente e maliziosa bellezza delle foto di scena di Sue Lyon-Lolita e alla rutilante realtà psichedelica del mondo di Arancia meccanica, con i suoi «drughi» e la sua violenza curata scientificamente...

Per tutta la durata della mostra, comunque, nel cinema interno al Palazzo delle Esposizioni si potranno vedere, in originale con i sottotitoli in italiano, tutte le opere di questo grande maestro del XX secolo per il quale fare un film era il massimo del divertimento. «Dirmi di smettere e di andare in vacanza è come dire a un bambino si smettere di giocare per andare in vacanza».

Convinto che l'essenza del cinema fosse il montaggio, «tutto il resto è un derivato da altre forme di espressione», regista americano che, eccezion fatta per i polizieschi iniziali, non girò mai un film americano, neanche quando in America ci viveva, Kubrick vide sempre Hollywood come qualcosa di estraneo e da cui difendersi. «Non è che corrompa le persone, è il terribile senso di insicurezza che provoca.

Competitività distruttiva. Penso che la cosa migliore da fare sia lavorare e isolarsi dalla malignità strisciante». Era europeo per origini, tradizioni, gusti, nostalgie: l'ammirazione per Ophuls e Strauss, l'interesse per Schnitzler e Zweig, l'incontro fecondo con Nabokov...
Il progressivo chiudersi in sé stesso, costruendo intorno alla sua vita una barriera che la sua ultima residenza inglese di Childwick Green, un maniero elisabettiano enorme quanto ben recintato, si spiega anche così, accompagnato dall'idea che al fondo ciò che resta della vita, una volta scomparsi l'amore, l'ambizione, persino il potere, è soltanto un solipsistico occhio. Non è un caso che il suo ultimo film, Eyes Wide Shut, rimandi all'occhio di chi, guardando, non vede altro che la sua stessa immagine.

Questo era Kubrick, un voyeur cinico, disperato e nobile.

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