L’8 marzo senza mimose della vedova di Nassirya

Alessandra e il ricordo del marito, carabiniere di pace caduto in un Paese in guerra. Al suo fianco i familiari di un militare stroncato da un aneurisma

Cristiano Gatti

nostro inviato a Viadana (Mantova)

Non è di mimose, l’aroma che aleggia su questo strano e malinconico 8 marzo di estrema provincia. Si respira la fragranza inafferrabile di sentimenti veri e normali, come l’amicizia, come il ricordo, come la riconoscenza. È tutto un altro modo di omaggiare le donne. Mentre tante signore d’Italia festeggiano infilando bigliettoni nel tanga dello spogliarellista che balla sul tavolo, segno di un’emancipazione e di una parità quanto meno malintese, qui il programma prevede soltanto un momento di raccoglimento e un regalo concreto. Parole commosse e venticinquemila euro. Al centro della ricorrenza due donne molto particolari: due vedove, che piangono i loro uomini al fianco dei loro orfani.
L’idea è di Mauro Saviola, l’imprenditore divenuto famoso riciclando il legno vecchio in legno truciolato. Proprio per questa sua attività ecologica, mesi addietro è rimasto oggetto di una campagna pubblicitaria da parte degli industriali del legno vero. Campagna denigratoria, ha giudicato lui con una querela. Ed effettivamente la giustizia gli ha dato ragione, stabilendo una somma simbolica di risarcimento danni. Mauro Saviola non ha pensato nemmeno per un attimo di intascare quel denaro. Ha pensato subito alle vedove dei suoi amici carabinieri. Di uno in particolare. Di quel maresciallo Filippo Merlino che comandava la locale compagnia, «che vigilava sulla comunità e ci faceva sentire sicuri», e che inseguendo un concetto più alto di giustizia partecipava alle missioni di pace in giro per il mondo, fino a restare sotto le macerie di Nassirya. Sì, nessun dubbio: i venticinquemila euro dovevano servire ad un 8 marzo particolare. Per chi non ha più un uomo che torni a casa la sera con un rametto di mimosa e con un caldo abbraccio di marito.
Oltre alla vedova di Nassirya, ce n’è una seconda: una giovane donna che si porta appresso la sua bambina di nove anni, Samuela. In questo caso, il carabiniere che piangono non è morto in missioni lontane: semplicemente, Giuseppe Dezolt è caduto mentre faceva il suo dovere sulle strade d’Italia, aggredito improvvisamente dall’aneurisma. Destini diversi, uguale il rimpianto.
«Nulla restituirà le persone care alle loro famiglie - dice con la sobrietà del vero carabiniere il nuovo comandante di Viadana, capitano Giancarlo Berton - però speriamo possa sollevarle sapere che non sono dimenticate...». Una stretta di mano, qualche fotografia, gli assegni pudicamente nascosti in una cartelletta, qualche pasticcino sul tavolo delle riunioni. Qui Viadana, anche questo è 8 marzo. Non fiori, ma opere di bene: come si diceva una volta.
Alessandra Savio, la moglie del maresciallo Merlino, è una bella signora che irradia dignità. Anche dopo la morte del marito a Nassirya, ha continuato a vivere in caserma: la casa nuova, che avevano sognato e avviato insieme nel 2000, sarà pronta tra qualche mese. Ci andrà lo stesso, perché è sicura che farà piacere anche al suo amato maresciallo. La casa è tutta particolare, senza ostacoli, servita di ascensori: così l’hanno pensata per Fabio, il loro ragazzo sofferente di amiotrofia spinale. C’è sempre lui, mentre ancora si parlano in una dimensione tutta nuova e diversa, nei pensieri di Alessandra e del suo maresciallo: «Però ci tengo a chiarire: Filippo non era partito, come s’è detto all’indomani della tragedia, per pagare le cure a nostro figlio. È una cosa terribile, se Fabio la vive così: ora ha 16 anni, non voglio si senta in colpa per la morte di suo padre. Già deve soffrire abbastanza...».
Perché andò, signora? «Diceva sempre: visto che non posso fare di più per risolvere i problemi di Fabio, cerco almeno di aiutare altra gente che soffre. Questo era mio marito. In paese lo chiamavano maresciallo Rocca. Un uomo con un altissimo senso dell’umanità e della giustizia. Semplicemente».
Le rivolgo la domanda più sgradevole: signora Alessandra, li ha sentiti i cori di certe manifestazioni, «dieci, cento, mille Nassirya?». Risponde senza rabbia: «Come non sentirli. Feriscono, certo. Ma è inutile dare spazio a questa gente. Mio marito e i suoi colleghi sono arrivati in Irak a guerra finita. Hanno costruito acquedotti dove i bambini si lavavano con le bottiglie d’acqua. È vero, occupavano un Paese straniero: ma era l’occupazione del bene sul male. Lo sappiano, quei signori: mio marito non era un guerrafondaio. Combatteva la sua guerra personale contro le ingiustizie».
Figlia di carabiniere, vent’anni fa ha sposato il suo bel giovane carabiniere: «Che fantasia, vero? Ma lui era così caro. Veniva dalla Lucania. Siamo stati bene, assieme. L’8 marzo arrivava sempre con la mimosa. Poi mi faceva il suo personalissimo regalo: vai, diceva, per una sera sei libera, esci con le tue colleghe (io lavoro in un supermercato). Lui se ne stava con Fabio, aspettando il mio ritorno...».
E questo 8 marzo, che cos’è? «Ogni giorno è uguale al precedente: al vuoto non ci si abitua mai. Ma voglio anche dire che certi gesti, come pensare a me e alla signora Dezolt, regalandoci un contributo concreto, aiutano molto...».
Spesso in Italia riecheggia una frase tremenda: lo Stato ci ha lasciati soli. Lo Stato ci ha dimenticati. Lo urlano soprattutto le vedove e gli orfani dei suoi servitori più fedeli. Signora Alessandra, urlano la stessa cosa anche le vedove di Nassirya? «No, noi possiamo solo urlare grazie all’Arma, ma soprattutto alla gente d’Italia. Da allora, ci chiamano nei paesi e nelle contrade più lontani: intitolano scuole, piazze, monumenti. Ci chiamano per testimoniare, ci esprimono la loro gratitudine più sincera. È l’energia migliore per tirare avanti. Tra noi vedove è sorta una grande complicità. Ci sentiamo tutti i giorni. Quando qualcuna è giù, le altre la tempestano di telefonate. Sembrerà strano, ma in questo periodo è nato qualcosa di bellissimo».
Sorride serena, liberando l’emozione. È suo il pensiero più alto e più degno dell’8 marzo 2006: «Da quelle macerie riemerge una forza irresistibile.

La forza del bene, dell’amicizia, della solidarietà. Noi che siamo rimasti, siamo diventati una grande famiglia. Segno che i nostri carabinieri non sono morti per nulla. E voglio dirlo soprattutto oggi, anche se nessuno tornerà a casa con una mimosa per me...».

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