L’8 settembre di mio padre un "eroe" quasi per caso

Dopo quasi mezzo secolo il figlio scopre l'8 settembre del padre. Era tra quelli che difesero Roma dai tedeschi. Storia di un carrista che non sapeva di aver partecipato a un'impresa: "Loro sparavano, noi rispondevamo"

La colpa è di Giordano Bruno Guerri. Quattro giorni fa, domenica, mi torna in mente qualcosa che avevo quasi dimenticato. Non è l’otto settembre. Non c’è nessun anniversario, eppure lui si mette a scarnificare le novanta ore di cinismo e indecisione che hanno segnato la storia, e l’orgoglio, dell’Italia. I giorni della vergogna. Sono passati vent’anni dall’ultima volta che qualcuno mi ha raccontato quella storia. È successo quasi per caso, in uno di quei momenti in cui un padre e un figlio scoprono la necessità di conoscersi un po’ meglio. La storia è questa e chiedo scusa se non è precisa. È un ricordo e mio padre da due anni non c’è più. Non posso chiedere. È solo un frammento di passato raccontato a vista d’uomo. Tutto qui.

Quella mattina c’era un cielo grigio. Il Muro di Berlino era ancora in piedi. Sarebbe caduto a novembre, di schianto. Mio padre deve andare al distretto militare. Lo accompagno. Non abbiamo mai parlato tanto della guerra. Qualche volta mi diceva che era stato fortunato. Aveva fatto qualche mese di corso come sergente dei carristi a Bologna, divisione Ariete, e una manciata di giorni di guerra vera. Poi il re è scappato e Badoglio con lui. C’era una grande confusione, qualcuno parlava di pace, altri dicevano che la guerra continuava. Erano sbandati, senza ordini e con una gran voglia di tornare tutti a casa. Mio padre non è mai stato in Africa. Suo fratello, più grande, sì. Lui no. Neppure prigioniero. Niente Albania, Grecia, Russia. Niente. Tre giorni di guerra. È per questo, forse, che non facevo domande. Non c’era nulla da raccontare. Mio padre, che nella vita sapeva rischiare, non rientrava nella categoria «eroe di guerra».

Quell’anno in divisa doveva essere comunque calcolato per la pensione. È per questo che varchiamo il portone del distretto militare. L’ufficio è quello dei reduci. C’è un sottufficiale che sbriga le pratiche. È lui che chiede a mio padre: «Ha fatto la guerra?». «Più o meno», è la risposta.

- «Come più o meno. Sì o no. Non è previsto un forse».

- «L’ho fatta. Ma solo qualche giorno».

- «Vediamo. Qui c’è il suo stato di servizio».

Il sergente è efficiente. Sa tutto. Dice: «Ma lei non era nella divisione Ariete?». Mio padre risponde: «Sì». «E l’8 settembre del ’43 non stava a Roma, dove ha combattuto la battaglia di Porta San Paolo?». Mio padre risponde ancora sì e sul mio volto spunta un punto esclamativo, seguito subito dopo da un altro punto, questa volta decisamente interrogativo. Porta San Paolo? Quella Porta San Paolo? Quello che resta dell’esercito italiano che ferma i tedeschi, piuttosto incazzati per il tradimento, alle porte della città eterna. Il re in fuga e i soldati che tentano l’impossibile. La resistenza «caparbia e eroica», come scrivono sui libri, che fece sbollire il furore teutonico e scongiurò il sacco di Roma. Il furiere chiuse la pratica di mio padre e con sguardo complice decise che sì: aveva fatto la guerra.
Quando usciamo dico: «Perché non mi hai mai parlato di Porta San Paolo?». «Non pensavo fosse importante». «È in tutti i libri di storia». «Può darsi. Ma tuo zio è partito per l’Africa nel ’36 e c’è rimasto 30 anni. Lui ha fatto la guerra. Io no». Mio padre era finito tra i carristi dell’«Ariete due». Tutte reclute, giovanotti non ancora maggiorenni. L’«Ariete uno» si era immolata ad El Alamein. Tutti morti. Da eroi. Loro, i ragazzini, erano stati addestrati con quel mito sulle spalle. Il 3 settembre, dopo l’armistizio di Cassibile, vengono spostati a Roma. Prendono il posto della Centauro, considerata troppo filo-tedesca, inaffidabile. L’otto settembre il grosso della divisione viene spedita a Bracciano, dove tiene testa ai carri tedeschi. Altre unità, tra cui i Reco di Montebello, restano a dare una mano ai Granatieri di Sardegna, nella zona Porta San Paolo e Ardeatina. C’è anche mio padre.

«Che è successo quel giorno, papà»?. «Niente. Stavamo lì all’alba. A un certo punto arrivano i tedeschi e cominciano a sparare». «E voi?». «Spariamo. Se uno ti spara addosso tu che fai?». «Sparo». «Appunto». «E poi?», chiedo ancora io. Mio padre sorride: «Loro sparavano e noi sparavamo.

È andata avanti così per tre giorni». «E poi?». «Non si capiva più nulla. Non arrivavano più ordini. Quelli hanno smesso di sparare. È scesa la notte. Abbiamo parcheggiato i carri armati e ce ne siamo andati». «Tutti a casa?». «Sì, tutti a casa. A piedi».

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