L’Accademia che vaglia tutte le parole

Esiste un’Italia rumorosa, ora «piaciona» ora «coatta», modaiola ma disinformata e in fondo irrimediabilmente provinciale. Questa Italia parla un singolare idioma formato da residui dialettali misti a un’incontenibile alluvione di espressioni inglesi. Esiste una seconda Italia discreta, studiosa e quasi sommersa, che affiora a tratti nel chiasso della prima e sembra quasi non avere parentela con essa. Infatti parla un’altra lingua, ora aulica ora popolare ma sempre elegante, vivace, ricca di echi antichi, di memorie classiche e latine. E se la chiarezza della lingua corrisponde alla chiarezza delle idee, la seconda ha certamente le idee più chiare della prima.
Ora l’Italia degli italiani che parlano l’italiano (ci si perdoni la triplice ripetizione) ha perduto con Giovanni Nencioni, per 28 anni presidente dell’Accademia della Crusca, uno dei suoi ultimi numi tutelari. Lo ha sottolineato ieri il presidente della Repubblica nel suo messaggio di cordoglio: «Scompare con Giovanni Nencioni una figura di assoluto rilievo nel patrimonio culturale italiano e internazionale, che con la sua prestigiosa e intensa attività di studioso ha fornito un contributo originale e prezioso all’avanzamento della scienza del linguaggio».
Nei novantasei anni della sua lunga e feconda esistenza il professor Nencioni - fiorentino, allievo del grande giurista Piero Calamandrei con cui si laureò in diritto processuale nel 1932 - dedicò alle ricerche lessicografiche e glottologiche uno strenuo impegno. L’amore per la bella lingua lo contagiò ben presto se già a sedici anni, allievo del liceo classico «Galileo», si produsse in una versione in endecasillabi sciolti del V canto dell’Eneide. Uno così non poteva che finire alla Crusca, dove il professore approdò nel 1953, con alle spalle un’intensa attività di studioso e di docente prima all’Università di Bari e poi all’Ateneo fiorentino. All’Accademia arrivò con un incarico: studiare le condizioni di una possibile ripresa del lavoro lessicografico. Il grande e precipuo impegno dei «cruscanti» era stato infatti, fin dal 1612 quando uscì a Venezia la prima edizione, la pubblicazione di un Vocabolario della lingua italiana che proseguì con alterne vicende fino al 1923 quando si interruppe alla lettera «O». Si dibatteva, a metà degli anni Cinquanta, sulla possibilità di proseguirlo e Nencioni, divenuto segretario e soprintendente all’Opera del Vocabolario, nel 1964 organizzò l’avvio dei lavori lessicografici di cui assunse la direzione ad interim tra il 1972 e il 1974. Nel frattempo, nel 1972 era diventato presidente della Crusca, carica che mantenne fino al 2000 quando la cedette a Francesco Sabatini.
Con la legge del 6 gennaio 1983, l’Opera del Vocabolario fu affidata a un centro di studi del Cnr, appoggiato dalla stessa Accademia della Crusca. Sollevata dall’impegno propriamente lessicografico, l’Accademia potè così dedicarsi a sviluppare una consistente attività di ricerca e di consulenza intorno alla lingua italiana, che aveva il suo centro propulsivo intorno a Giovanni Nencioni, direttore del Centro di studi di grammatica dell’Accademia, direttore della rivista Studi di grammatica italiana, ricercatore (alla Scuola Normale di Pisa) sui rapporti fra la lingua e i grandi protagonisti della cultura italiana e della storiografia artistica.
Ma i tempi erano assai grami per la veneranda Accademia in un’Italia sempre più caciarona e televisiva. Con i contributi statali ridotti all’osso tanto da non riuscire a pagare gli stipendi ai soli tre dipendenti, la Crusca era al lumicino. Diede l’allarme dalle colonne del Giornale Geno Pampaloni cui fece seguito Indro Montanelli con l’appello «Salviamo la Crusca» pubblicato l’8 novembre 1989. «Quanti miliardi - si domandò Montanelli - si sperperano oggi in Italia in premi e feste letterarie accompagnate da rinfreschi e pranzi per centinaia di coperti...? Basterebbe un centesimo, un millesimo di ciò che si spende in queste fiere della vanità per salvare la Crusca raddoppiando il miserabile contributo statale». Il direttore rivolse un appello ai privati che risposero generosamente, il Giornale ci mise cinquanta milioni delle lire di allora e un anno dopo Giovanni Nencioni potè dichiarare che non soltanto era stato raccolto un congruo fondo ma anche lo Stato si era mosso raddoppiando il contributo.


«Ci ostiniamo a credere - aveva scritto Montanelli - che in Italia ci siano ancora degli italiani convinti che una cultura senza una sua lingua non sia una cultura (nonostante lo spreco che oggi si fa di questa parola) e che un Paese senza cultura non è un Paese ma solo un accampamento di apolidi». Che cosa scriverebbe oggi di fronte all’anglodevastazione dell’italiano?

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