L’acchiappamafiosi che odia le supposizioni

L’acchiappamafiosi che odia le supposizioni

(...) È l’acchiappamafiosi, fin da quando, in divisa da due anni, comandava la catturandi di Palermo. Claudio Sanfilippo dovrà anche smetterla di fare lo sbirro, così vuole la carriera. Ma magari un paio d’anni da capo della mobile nella sua Palermo se li farebbe ancora volentieri. E si può supporre che il desiderio venga accolto, ma guai a dirglielo. Mica perché sia scaramantico. Solo che «la supposizione è la madre di tutte le cazzate». Glielo ricorda ogni giorno la seconda delle sei cornicette a giorno appese al muro dell’ufficio che mettono a fuoco altrettanti aformismi. Il primo è «senza fretta, senza tregua», proprio il motto della sezione catturandi di Palermo.
Lui fretta non ce n’ha, anche se prima o poi gli toccherà fare anche il dirigente dell’ufficio di gabinetto e diventare questore. Una boccata di sigaro e uno sbuffo. Senza fretta. Come per dire addio a quello status di eterno single che sembra quasi costretto a portarsi addosso, ma senza farsene un cruccio. Salvatore Fraterrigo, il latitante da top 100 catturato in Romania, è l’ennesimo colpo, l’ennesima tacca di una carriera da specialista. Ma la copertina del «Time» appiccicata sulla vetrina della libreria gli ricorda che resterà sempre il poliziotto che catturò Giovanni Brusca.
Senza fretta, ma in venti giorni. Perché un’agendina criptata sequestrata a un mafioso legato al boss era «saltata» in una notte di lavoro grazie a un ispettore di Sanfilippo. Il resto è stato un braccio di ferro contro le compagnie telefoniche e le nuove tecnologie gsm, appena uscite nel ’96 e subito in dotazione a Brusca, all’epoca assolutamente «inintercettabili». Almeno così si «supponeva». Appunto, Sanfilippo conosceva il valore delle supposizioni. Amici ingegneri in Italtel e reticenze vinte tra i tecnici delle compagnie telefoniche gli hanno fatto fare un corso super rapido di «time advance» e metodi di intercettazione. Sempre senza scordare i metodi classici. Il lavoro sul campo, le giornate di osservazione nella campagna siciliana. Stringi stringi, sono arrivate le telefonate sempre alle nove di sera. Le sfuriate di «Giuvà» per una maglietta di colore sbagliato che i suoi gli avevano fatto avere alla villa in cui viveva da latitante. Poi uno sguardo incrociato con un bambino che giocava nel giardino di una casetta isolata, quel bambino che Sanfilippo aveva sempre davanti sulla scrivania, quel bambino che senza saperlo aveva «tradito» il papà boss. Tutto fino all’irruzione, con il commissario trentacinquenne a prendere le botte dei suoi uomini, per riparare Brusca dalla furia dei poliziotti che, avendolo sotto le mani, volevano vendicare i colleghi morti con Falcone.
E dire che la cattura di Brusca non è neppure il suo vanto. Lui è fiero di come ha fatto a stanare Pietro Aglieri. «Quello è troppo furbo, non lo prenderete mai», gli aveva detto uno dei primissimi pentiti. Lo «supponeva» lui. Claudio Sanfilippo dopo un viaggio verso Palermo e una notte intera di monologo davanti a un Giovanni Brusca appena arrestato e più muto di un pesce, aveva ottenuto dal boss una promessa: «Dotto’, se dovessi fare quel passo, il primo a saperlo sarete voi». Il passo era la collaborazione. Senza fretta, senza tregua. Una settimana dopo il boss chiedeva un incontro al commissario Sanfilippo appena promosso vice questore per merito straordinario. E via altri superlatitanti in cella. Inafferrabili, si supponeva. Proprio come il maniaco dell’ascensore di Genova. Un destino legato alla cattura dei delinquenti, il suo.

E se Sanfilippo fa ancora quel mestiere, da sei anni alla guida della mobile genovese dove i capi cambiano ogni due o tre anni, è forse perché anche il destino ha letto la quarta massima appesa al muro: «Se il destino è contro di noi, peggio per lui».

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