L’accusa ammette la sconfitta: «Delusione»

Il conclave lungo sei giorni partorisce una sentenza double face: Marcello Dell’Utri ha avuto rapporti con Cosa nostra, ma il senatore viene assolto per tutti i fatti successivi al ’92, quelli che da tempo infiammano le cronache e il dibattito politico. Dell’Utri, par di capire dalla lettura del dispositivo, non incontrò i fratelli Graviano, come invece sosteneva il pentito Gaspare Spatuzza. Dell’Utri non fu l’artefice di alcun accordo, nel biennio ’93- ’94, fra Berlusconi e la nomenklatura mafiosa e Cosa nostra non mise le mani nel piatto della debuttante e scalpitante Forza Italia, come ha raccontato di recente Massimo Ciancimino, che i giudici di Palermo peraltro non hanno neanche voluto ascoltare. Cadono anche tutte le suggestioni sulle bombe, le stragi e i collegamenti occulti nel retropalco sporco della politica italiana. «Il fatto non sussiste», scandisce il presidente della corte d’appello di Palermo Claudio Dall’Acqua e con una riga cancella un intero romanzo criminale. Ma non le macchie sul curriculum di dell’Utri.
Il sostituto procuratore generale Antonino Gatto, che aveva chiesto una condanna esemplare a 11 anni, si deve accontentare di una pena quasi dimezzata rispetto alle richieste: 7 anni. Sette, due in meno rispetto al verdetto di primo grado. «Sono profondamente deluso». Poi Gatto si aggrappa a Salomone: «Quando ho ascoltato la sentenza mi pareva di sentire la storia di Salomone e del bambino tagliato a metà».
Ormai, l’Italia è abituata ad accapigliarsi sull’interpretazione di sentenze salomoniche: basti pensare a un altro processo estenuante, quello al senatore a vita Giulio Andreotti chiuso con un verdetto a doppia lettura che dice tutto e il contrario di tutto. Andreotti avrebbe avuto rapporti con la vecchia guardia mafiosa dei Bontade dei Badalamenti (accuse ritenute provate ma prescritte) e sarebbe stato poi uno dei grandi nemici di Cosa nostra nella stagione dei Corleonesi (assoluzione piena). Questa volta si considera colpevole il primo dell’Utri, quello che avrebbe organizzato già negli anni Settanta riunioni a Milano con Silvio Berlusconi e boss del calibro di Mimmo Teresi, Stefano Bontade e Vittorio Mangano, una maschera fissa in trent’anni di inchieste sul terzo livello, processi snervanti e grappoli di leggende metropolitane. Gatto aveva chiesto alla corte d’appello il «coraggio di una sentenza storica», ma la corte non è uscita dai binari della cronaca spicciola. I grandi teoremi tornano nella soffitta delle dietrologie, ma Gatto cerca ugualmente di far quadrare i conti: «Questa resta una sentenza storica sebbene la corte non abbia ritenuto di poter salire quel gradino necessario a leggere, secondo quanto avevo proposto, la stagione politica e la vicenda della trattativa». Certo, prima di avventurarsi in spericolati giudizi occorrerà attendere le motivazioni che saranno disponibili fra tre mesi. Ma la corte promuove le investigazioni sul passato remoto, boccia quelle sul passato prossimo. «L’importante - spiega l’avvocato Nino Mormino - è che l’alone di mafiosità complessiva del sistema politico istituzionale del nostro paese, dal ’92 in poi, cioè dall’entrata in campo di Berlusconi e Forza Italia, è assolutamente superato attraverso questa sentenza che taglia di netto il presunto rapporto presunto fra mafia e politica».
L’accusa evoca Salomone e il Palazzo si spacca in due. Per Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, «il dato più significativo è lo stupore del procuratore Gatto che prende atto del fallimento di un’autentica manovra politica tesa a riscrivere la recente storia d’Italia». Un giudizio che Antonio Di Pietro rovescia completamente: «Questa sentenza offre una conclusione amara: l’Italia è governata da due persone che hanno avuto rapporti stretti e confidenziali con Cosa nostra. Speriamo che adesso Berlusconi non faccia ministro pure Dell’Utri». «Il concorso esterno - gli risponde alla sua maniera Umberto Bossi - non dimostra niente. Non dimostra che uno è mafioso».


Ora il processo infinito, cominciato nel ’97, va in Cassazione. E comincia la gara contro il tempo: la condanna potrebbe essere cancellata dalla mannaia della prescrizione. Un altro tratto di molti processi italiani.

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