Dopo l’addio al lungo

Chi sarà mai Andrew Howe? Un campione, una ipotesi di campione, una illusione perduta, l’eterno ragazzino di cui non fidarsi mai? L’ultima sortita («Ho chiuso con il salto in lungo, non sono più concentrato e interessato») ci riporta al mondo del «siamo tutti Balotelli», gente che ha il talento dentro ma lo butta via. L’atletica italiana sta seguendo e inseguendo una strana involuzione: le donne lottano con le unghie e con il cuore pur di raccogliere qualche straccio di risultato ed, invece, i nostri due atleti più dotati stanno buttando via il loro filone d’oro e buttandosi via. Qualche giorno fa, Alex Schwazer ha alzato le mani davanti all’idea di sorbirsi una 50 km che poteva qualificarlo ai mondiali di agosto a Daegu, in Corea. «Al massimo farà la 20 km», ha sintetizzato il presidente federale Arese al quale non sarà sfuggito che, dopo l’oro alle olimpiadi di Pechino, l’Italia ha perso un campione, un tipo che pareva duro e tosto, una macchina da guerra dell’agonismo. Schwazer è affogato nei suoi problemi di testa, nelle storie di cuore e batticuore, lo hanno corrotto (e corretto) il successo e la vita da uomo pubblico.
E adesso tocca a Howe, eterna promessa, il ragazzo delle illusioni perdute. Quel salto da uomo qualunque (m.7,68), sulla pista torinese dei campionati italiani, potrebbe essere l’ultimo di una carriera che aveva illuso un po’ tutti. Poteva essere un Aladin sul tappeto volante, ma si è perso troppo presto il tappeto. Forse Howe ha vissuto drogato da certe illusioni. Forse il carattere non si è mai fortificato. Quel discorso («La mia vita ha preso una via completamente sbagliata e me ne rendo conto adesso. Smetto con il lungo perché è inutile battere un cavallo morto») è il segnale di uno stordimento, un sottile macerarsi interiore che l’atleta aveva già esternato ai suo dirigenti, a se stesso, soprattutto quando ha scoperto che i suoi limiti erano già stati toccati («Ai mondiali di Osaka ho raggiunto il massimo con l’argento e il record italiano»). Lo ha confermato Arese: «Già prima della gara, l’idea era di chiudere con il lungo. Nella sua testa non voleva più farlo».
Da Osaka ad oggi sono passati quattro anni, nel mezzo tanti infortuni, due titoli europei ma anche delusioni cocenti: europei (Barcellona 2010), mondiali (salta Berlino 2009 e va ad operarsi al tendine d’Achille) e giochi olimpici (Pechino 2008: eliminato nelle qualificazioni). C’è stato tempo per pensare e valutare, eppure Andrew non più di un mese e mezzo fa parlava del suo futuro nel lungo, dei mondiali di agosto ai quali avrebbe partecipato solo in questa specialità. «Poi penserò alla velocità». Parlava di medaglie d’oro, convinto che la lista degli avversari del salto in lungo si sarebbe assottigliata. Strano, ma vero, ha cominciato lui ad assottigliarla.
Quel muso lungo dell’altra sera sembrava il solito capriccio di un bambino viziato. Quel parlare di una vita sbagliata fa pensare a tante cose, anche alle divagazioni fuor dell’atletica, che pure aveva detto di aver messo da parte per qualche tempo. Rituffarsi nella velocità è solo un modo di sfuggire dal destino. Anche Howe sa bene che, in pista, rischierà sempre di essere solo una buona seconda linea. Lo dimostra anche il 20”52 nella finale dei 200 metri ieri sera agli Assoluti di Torino. Ha vinto, ma con un tempo da routinier.

Difficile star davanti al francese Lemaitre in Europa. Nel mondo diciamo Bolt e una schiera di siluri con i difetto di essere umani. Howe, anche nella carrozzeria, è un’utilitaria. Rischia solo di diventare l’ultimo fuoriclasse del siam tutti Balotelli.

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