L’allarme dell’ematologo: «Pronto il doping della quarta generazione»

Il professor Amadori: «Gli abitanti della Chuvashia hanno per natura un ematocrito superiore al 50%. I loro geni sono stati studiati e utilizzati per produrre nuove sostanze proibite già sul mercato»

da Nimes

Cuvasia o Chuvashia. Questa è l’isola che non c’è, il sogno proibito, il punto di arrivo da dove sta partendo la nuova frontiera del doping: quello di quarta generazione.
Un nuovo farmaco, che per il momento, ancora per poco, non ha un nome ma certamente si può dedurre da dove arrivi l’ispirazione. Cuvasia, piccola Repubblica nel cuore del bacino del Volga, una delle regioni più popolate in tutta la Federazione Russa, con 1,4 milioni di abitanti. Il capoluogo è Cheboksary, a 650 chilometri circa ad est di Mosca. Altra particolarità della Cuvasia? «Più della metà della popolazione ha un ematocrito superiore al 50%: livelli tali da essere squalificati dal Tour de France – ci racconta il professor Giuseppe Amadori, ematologo presso l’Università di Padova, uno dei responsabili dell’Associazione contro il doping nello sport che ha nel professor Mario Plebani, il direttore -. La popolazione della Cuvasia, pur non vivendo in altura, presenta valori ematici elevati naturalmente. Dovete sapere che fisiologicamente l’ematocrito elevato nel nostro Paese ce l’ha 1% della popolazione. In Cuvasia, per un particolare assetto dei geni, i valori sono molto alti naturalmente».
A questo punto sorge spontanea la domanda: ma cosa c’entra la Cuvasia con la nuova frontiera del doping? «C’entra. Eccome se c’entra - riprende il professore -. Da informazioni in nostro possesso, sappiamo che sono ormai pronti dei farmaci che riusciranno ad agire nella catena di reazioni che, partendo dal sensore per poco ossigeno, provocano la maggiore sintesi di emoglobina. Insomma, hanno studiato i geni della popolazione della Cuvasia per arrivare a scovare il “trucco”, e l’hanno scoperto. Oggi si parla di CERA, ma questo nuovo farmaco è già stato superato: siamo già oltre, alla quarta generazione».
Dunque un ciclismo sempre più nel tunnel e sempre più in difficoltà nel rincorrere l’evoluzione del doping. «Però noi proviamo a farlo uscire dal tunnel - sottolinea Amadori -, e in Francia, e non solo lì, stanno dimostrando che anche la ricerca doping più sofisticata può essere battuta e sconfitta... La verità però è che non si tratta di un problema solo del ciclismo: questo sport ha certamente tantissime colpe, ma è lo sport professionistico che non capisce e non si sta adeguando. Il calcio ha recepito i regolamenti Wada solo alla vigilia degli Europei vinti dalla Spagna. In Germania, dove vinse l’Italia, la Wada fu rimandata a casa: nessun controllo. È dell’altro ieri la testimonianza di Alessia Filippi, campionessa di nuoto, che ha detto che si augura che anche nel suo sport arrivino gli esami incrociati sangue-urine, cosa che nel ciclismo c’è da un decennio. Nel tennis controlli non ce ne sono, in altri sport idem come sopra. La situazione è preoccupante e chi sostiene il contrario dice il falso».
Che fare quindi? Il professor Amadori è convinto che si debba arrivare soprattutto alle famiglie. «Bisogna educare, parlare, spiegare, ma la cosa è molto difficile. Il problema è la nostra società, sono le famiglie, siamo noi che non ci accettiamo per come siamo e ricerchiamo l’aiutino ad ogni pie’ sospinto. Oggi l’impiegato di banca fa la pausa pranzo, va in palestra e fa quaranta minuti di fitness.

Poi va al bar e ingurgita integratori di ogni tipo per reintegrare i sali minerali persi, quando l’integratore migliore c’è già in natura: l’acqua. Però non viene accettato. Non ci si accetta più. Il naturale non piace più».

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