Quando, il 3 gennaio scorso, il presidente del Comitato nazionale di Transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil avvertì che se le varie milizie che avevano contribuito alla cacciata di Gheddafi non accettavano di sciogliersi la Libia sarebbe precipitata nella guerra civile, sapeva quello che diceva.
Tre settimane dopo, in seguito anche alla contemporanea denuncia di tre organizzazioni umanitarie sul sistematico uso della tortura da parte dei nuovi padroni, la possibilità che la Libia liberata dal tiranno stia in realtà cadendo dalla padella nella brace si fa sempre più concreta.
L’autorità del governo provvisorio, presieduto dal tecnocrate Abdel Rahim El Kib, che dovrebbe reggere le sorti del Paese fino alle elezioni per una assemblea costituente previste per il giugno 2012, si fa ogni giorno più evanescente, e ci sono seri dubbi che possa portare a termine la sua missione di stabilizzazione.
Due ultimatum rivolti alle milizie che tuttora imperversano a Tripoli sono stati ignorati, e chi si rivolge alla polizia per denunciare i loro soprusi si sente rispondere: «Sono molto meglio armati di noi, non possiamo fare nulla». Intanto, da ogni parte si levano contro il Cnt accuse di malversazioni, ruberie e perfino oscuri collegamenti con il vecchio establishment gheddafiano.
L’ultima settimana è stata di fuoco. Sabato scorso, una folla inferocita ha attaccato e saccheggiato la sede del governo provvisorio a Bengasi, che era stata la culla della rivoluzione, ma adesso si sente di nuovo trascurata a favore della capitale. Lunedì la tribù Warfalla, già legata a fil doppio al Raìs, ha preso d’assalto la città di Bani Walid, una delle ultime roccheforti del vecchio regime, vi ha instaurato una propria amministrazione e ha costretto il governo centrale a riconoscerla. Giovedì, Amnesty International, i Medici senza frontiere e l’Onu se ne sono usciti con tre distinti quanto devastanti rapporti sulla situazione dei diritti umani nel Paese, che fanno toccare con mano quanto la riconciliazione sia ancora lontana.
Il quadro che ne esce è davvero allucinante. Amnesty riferisce nei particolari di una serie di casi accertati di tortura contro ex sostenitori di Gheddafi e immigrati dall’Africa subsahariana, sospettati di essersi schierati con il dittatore. Le vittime hanno riferito di essere state «appese in posizioni contorte, picchiate per ore con fruste, cavi, tubi di plastica, catene, sbarre di metallo e bastoni di legno, tormentate con scariche elettriche», al punto che molti hanno finito con il confessare reati mai commessi e alcuni sono stati messi a morte. L’organizzazione fa nomi e cognomi, e cita in particolare il caso del colonnello Ezzedine Al Ghool, 43 anni, padre di sette figli, seviziato a morte senza l’ombra di un processo.
Buona parte di questi «interrogatori» si svolgono in carceri illegali, fuori dal controllo del governo, dove sedicenti comitati giudiziari, emanazione delle varie milizie tribali, la fanno da padroni. I più feroci sono i membri della brigata Sumond di Misurata, che hanno avuto la faccia tosta di mandare nella clinica di Medici senza frontiere prigionieri tramortiti da un primo round di torture, non per curarli, ma solo per rimetterli in condizione di sopportarne un secondo. Per reazione, Msf ha chiuso l’ambulatorio.
Spesso, anche le truppe teoricamente leali al Cnt partecipano a queste forme di rappresaglia: sembra che nella sola Tripoli ci siano attualmente 8.000 detenuti, cui viene negato ogni contatto con le famiglie o con un legale.
Il paradosso è che, per ottenere questo bel risultato, i bombardamenti della Nato a sostegno dei ribelli avrebbero fatto da 40 a 70 morti civili, donne e bambini compresi. L’unica buona notizia è che la produzione petrolifera dell’Eni ha quasi raggiunto il livello prebellico di 270mila barili e potrebbe presto arrivare a 300mila.
Ma l’esito complessivo della missione di Monti a Tripoli, per «rafforzare l’amicizia e la cooperazione nella cornice di una nuova visione dei rapporti bilaterali» è avvolto nell’incertezza.
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