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L’analisi Ecco perché il partito repubblicano scricchiola

La raccomandazione che Barack Obama fa almeno tre volte al giorno agli entusiasti ascoltatori dei suoi comizi è «calma ragazzi, non abbiamo ancora vinto». L’appello che nelle stesse ore John McCain (e, più o meno parallelamente, Sarah Palin) rivolge ai suoi è «coraggio ragazzi, non abbiamo ancora perso». È un segno fra i tanti del diverso stato d’animo che regna nei due partiti a otto giorni dalle elezioni per la Casa Bianca e per il Congresso. I dati degli ultimi giorni indicano una riduzione, goccia dopo goccia, del vantaggio di Obama ma non arrivano fino a incidere sugli umori. In campo repubblicano, addirittura, c’è chi ha inaugurato con sgradevole anticipo la fase post elettorale, quella delle recriminazioni.
Brutto segno, anche perché vi partecipano non soltanto i «dissidenti», gli esponenti sempre più numerosi del Gop che hanno abbandonato la nave dell’ammiraglio John McCain: tre o quattro governatori, diversi senatori, dei soci fondatori della «Reagan revolution», intellettuali di fama come il Fukuyama di Fine della storia, columnist conservatori notissimi come George Will e Christopher Buckley, Scott McClellan, per anni portavoce di George W. Bush alla Casa Bianca. Naturalmente Colin Powell. E i cognomi storici: la vedova e un figlio di Reagan, i nipoti di Goldwater, di Eisenhower, e di Nixon. Più quelli che tacciono, i senatori e i deputati che separano rigorosamente la propria campagna elettorale da quella di John McCain, la candidata stessa alla vicepresidenza, l’impaziente Palin, che appare ormai aver mollato la gara di quest’anno e «correre» per il 2012. Da molti viene un consiglio pratico: dimenticare la Casa Bianca e dedicare le ultime energie a salvare il salvabile in Congresso.
Un elenco che potrebbe chiudersi addirittura col nome del candidato, perché McCain, alla ricerca di temi o di appigli, ha spostato negli ultimi giorni il tiro e spara a zero contro Bush, come se stesse replicando lo slogan di Mao al tempo della Rivoluzione Culturale: «Sparate sul quartier generale».
È tempo allora di interrogarsi sulle cause più profonde di questo malessere. Di chiedersi di quale grave malattia soffra il Partito repubblicano protagonista trionfante dell’ultimo quarto di secolo della politica americana, erede della dottrina vincente del reaganismo, partito guida nella vittoria finale dell’America, del mondo libero, del capitalismo contro l’Unione Sovietica e l’impero comunista. Le cause principali sono riducibili a tre, scaglionate nel tempo ma vive tutte assieme ora. La prima e maggiore è la profonda e ostinata impopolarità di George W. Bush, nata dalla guerra in Irak e non sopita neppure oggi che le cose a Bagdad hanno preso una svolta per il meglio: Bush continua ad essere il meno amato inquilino della Casa Bianca a memoria d’America. Il primo a saperlo è lui, che per amor di partito si è tenuto fuori dalla campagna elettorale, limitandosi ad annunciare di aver votato (per posta) per McCain proprio nei giorni in cui McCain lo ripudiava. La seconda causa è legata invece a McCain, alla maniera disordinata con cui egli ha condotto la campagna elettorale, con tenacia pari alla confusione, con un’aggressività che gli si è ritorta contro, con scelte giudicata dai più imperdonabili come quella del candidato alla vicepresidenza. La terza causa però non riguarda né l’uno né l’altro. È la terribile coincidenza fra le ultime settimane di campagna e il tracollo finanziario. McCain era pari a Obama alla vigilia di quel 15 settembre 2008 che rimarrà nella storia come una catastrofe forse peggiore dell’11 settembre di sette anni prima. George W. Bush e John McCain sono crollati come Torri Gemelle. E si son tirati dietro anche una incrinatura, non sappiamo quanto profonda, della eredità di Ronald Reagan.
Un «miracolo», forse, potrebbe ancora salvare McCain. Bush dovrà aspettare i giudizi e le revisioni degli storici fra decenni. E il Partito repubblicano, intanto, è in mezzo al guado.

Con l’acqua alta.

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