L’analisi Le quote rosa sono inutili: meglio lasciar decidere al mercato

di Serena Sileoni*

Da elettrice (donna), l'idea che chi mi rappresenti sieda sugli scranni della politica in virtù di una quota riservata dalla legge, e non dal mio voto, mi ripugna.
Da eletta, la stessa idea mi umilierebbe.
Da consumatore, lavoratore, studente, individuo, l'idea che nei Cda, nei sindacati, nei consigli scolastici, in ogni ente che abbia un qualche potere siedano donne in virtù del sesso, e non per la loro capacità, mi spaventa.
Così come mi irrita la retorica delle quote rosa, così assurda in linea di principio, ma diventata un argomento politicamente intoccabile e trasversale rispetto agli schieramenti politici, non solo in patria, ma anche all'estero.
Oggi la retorica benpensante delle quote rosa ha invaso la politica. I cugini francesi sono andati ben oltre: prendendo spunto da una legge norvegese, il primo dicembre è stata depositata all'Assemblea nazionale una proposta che impone entro 5 anni il raggiungimento di una percentuale del 50% di presenza femminile nei consigli di amministrazione delle grandi società.
La proposta delle quote rosa nei consigli di amministrazione deriva dai Paesi scandinavi: in Svezia, nella scorsa primavera il governo ha chiesto ragione alle società quotate in Borsa della scarsa presenza femminile nei loro consigli, ma senza avere risposta nella maggior parte dei casi; in Finlandia con l'anno nuovo dovrebbe entrare in vigore un nuovo codice di corporate governance che richiede la presenza di almeno una donna in ogni board. La Norvegia è stata la più zelante di tutte, visto che già da qualche anno ha imposto l'obbligo di una percentuale di gentil sesso nei cda delle società quotate.
Who deserves what?, hanno imparato a dire gli americani, dopo i problemi provocati dallo slittamento delle politiche affermative come strumenti di tutela delle minoranze o di gruppi «deboli» a strumenti di reverse discrimination.
Anche noi presto dovremo forse imparare a chiederci «a chi riservare cosa», e secondo quale criterio di egualitarismo. D'altro canto, il principio su cui poggia la retorica delle quote rosa è lo stesso delle azioni positive inventate al tempo delle discriminazioni razziali negli Stati Uniti per promuovere l'integrazione di categorie deboli, come i neri, nelle scuole e nei posti di lavoro.
Nulla garantisce dunque che dalle quote rosa si passi a quote di altro colore, a causa delle quali sarà sempre più difficile valutare il merito delle persone, e non l'appartenenza a un'etichetta di genere o di gruppo.
Ancora una volta si fa confusione tra uguaglianza di condizioni e uguaglianza di risultato. Se l'uguaglianza è lo strumento con cui attribuire le medesime posizioni e possibilità a tutti in maniera radicale e incondizionata, appare corretta la politica delle quote rosa, prescindendo da ogni elemento di valutazione nel merito. Se, invece, essa è il criterio con cui offrire parità di occasioni in partenza, allora ne sarà garanzia una assenza di legislazione sul punto.

L'opzione per l'uno o per l'altro modello sembra comportare la scelta tra l'affermazione dell'indifferenza rispetto a situazioni di merito diverse, da un lato, e il riconoscimento delle differenze nelle capacità individuali (e non solo nel sesso) dall'altro.
*Fellow Istituto Bruno Leoni

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