La notizia, che mi ha lasciato senza parole, è questa: la misura (o una delle misure) per affrontare il (presunto) problema del global warming nonché il (reale) problema della sicurezza energetica, sarebbe quella di dipingere i tetti delle case di bianco: «Se dipingessimo tutti i tetti piatti del mondo di bianco, e quelli obliqui e le strade e i marciapiedi del mondo di colori «freschi», anziché neri, e facciamo ciò uniformemente (sic!)... è come se riducessimo le emissioni di CO2 dalle auto per 12 anni». Ora, capisco che, come s'usa dire, ogni fegato di mosca fa sostanza. E capisco pure che con un po' di pazienza si può anche calcolare e verificare quanto sostenuto nella citazione. Ad esempio, bisognerà servirsi del fatto che le perdite di calore degli edifici sono proporzionali alla superficie esterna, mentre il guadagno di calore interno è proporzionale al volume dell'edificio, per cui la misura suggerita risulta insignificante se attuata sui grandi condomini.
Detto diversamente: se il Pirellone fosse dipinto di bianco, l'elettricità necessaria per rinfrescare il suo interno d'estate sarebbe sostanzialmente la stessa che se non fosse dipinto. E bisognerà anche servirsi del fatto che le vernici, ancorché bianche, non zampillano da sorgenti spontanee, ma sono il prodotto di un complesso processo energivoro che produce anche le emissioni che si vorrebbe evitare. Ad ogni modo, anche prendendo per buoni i calcoli della notizia, visto che le auto contribuiscono per un terzo alle emissioni totali, l'operazione di dipingere il mondo di bianco equivarrebbe a «farne sparire» le emissioni di 4 anni. Insomma, realizzata con una ipotetica bacchetta magica oggi, l'operazione ci porterebbe, quanto a problema climatico-energetico (presunto il primo, reale il secondo) al 2005. Da oltre 20 anni. E non ho ancora imparato a smettere di stupirmi, perché c'è sempre un elemento di novità, inatteso, che accompagna la bischerata. Nel caso specifico, l'elemento inatteso è l'autore della medesima: è, egli, consigliere per l'energia del presidente del Paese più potente del mondo, e, come se non bastasse, è pure premio Nobel per la fisica.
Il prof. Steven Chu è un fisico eccezionale ma, siccome nessuno è perfetto, su come affrontare il problema (reale) della sicurezza energetica del proprio Paese ha idee alquanto stravaganti, a cominciare da quella dell'uso, da egli proposto massiccio, delle energie rinnovabili, che sono, com'è notorio urbi et orbi, una colossale jattura (tanto per non dire frode). Il mondo continua a mantenere una pericolosa dipendenza dal petrolio del Medioriente, e nulla pare abbia imparato dall'embargo degli anni 1973-74. Le proiezioni prevedono che nel 2025 di barili di petrolio gli Stati Uniti ne consumeranno 28 milioni, di cui solo un terzo prodotto in casa. Negli ultimi 30 anni i consumi energetici americani sono aumentati del 50%: la parte del leone degli aumenti l'hanno fatta il carbone, innanzitutto, e, di quasi uguale entità, il nucleare, a dispetto del fatto che non sono stati installati nuovi reattori nucleari (è aumentato il fattore di capacità degli impianti esistenti); una parte meno importante, negli aumenti del fabbisogno energetico americano degli ultimi 30 anni, l'hanno fatta il petrolio e il gas; nessuna parte, se non di comparsa, dalle rinnovabili. Questo è il suo problema, Mr.
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