L’ha spiegato molto bene il consigliere diplomatico che gestì la crisi fra Rabin e gli Usa nel 1975: «Gli Stati Uniti non devono mai creare una situazione in cui Israele si senta abbandonata: questo infatti incoraggia lo spirito bellicista della parte avversa e l’inflessibilità israeliana. Se gli Usa vogliono far avanzare il processo di pace, non devono mettere Israele in un angolo chiamando Ramat Shlomo “insediamento”. Ciò che occorre da ogni parte è una costruttiva ambiguità». Ed era quanto si era avuto fino ad oggi, con lo stop alle costruzioni nel West Bank per dieci mesi e la ripresa dei rapporti fra le parti tramite interposta persona. Poi, Obama ha protestato duramente su un accordo mai fatto, per il quale secondo lui Israele non dovrebbe più costruire a Gerusalemme est prima che sia stato fatto nessun accordo. Ma è noto che a Gerusalemme est abitano da sempre decine di migliaia di ebrei insieme agli arabi, e nessuno ha mai immaginato che in vista di un accordo su Gerusalemme tale presenza potrebbe essere obliterata.
La situazione ha preso fuoco dopo che gli Usa hanno dichiarato «un oltraggio» il fatto che sia stata annunciata martedì la costruzione di 1600 unità abitative nel quartiere di Ramat Shlomo: allora cavalcando la scusa di una ipotetica aggressività israeliana nei confronti di Gerusalemme, i palestinesi hanno dato il via a scontri che potrebbero portare ovunque.
L’impressione è che Obama, che non ha mai avuto simpatia per Netanyahu, lo aspettasse all’angolo di un errore da rimarcare per allontanare la politica americana da quella israeliana. Ma se era legittimo da parte dell’amministrazione americana rimarcare lo scarso tempismo del governo israeliano rispetto all’inizio dei colloqui che dovevano riprendere in questi giorni, dall’altra parte la veemenza della reazione è stata da molti ormai giudicata, anche negli Stati Uniti, “esagerata”. Obama non è uno specialista in Medio Oriente: il suo inchino al re saudita, il discorso al Cairo, pieno di autoaccuse, non hanno portato a nessun risultato presso l’opinione pubblica, solo alla percezione della sua debolezza. L’antiamericanismo regna sovrano nel mondo musulmano. La benevolenza verso la Siria con l’apertura di un’ambasciata a Damasco ha portato a un ulteriore coinvolgimento di Bashar Assad con Ahmadinejad, la sua mano tesa verso l’Iran ha portato all’avvicinarsi del rischio atomico mentre, indisturbato, il regime degli ayatollah ha riempito di missili (tramite la Siria) gli hezbollah, che ora possono arrivare a colpire Tel Aviv, e ha preparato all’attacco Hamas.
Adesso la reazione di Hillary Clinton («un insulto - ha detto alla Cnn - di cui Netanyahu è responsabile») al piano per Ramat Shlomo, un sobborgo di Gerusalemme est piazzato nel cuore di vecchi quartieri ebraici, ha portato a due conseguenze: lo scaldarsi della piazza palestinese, eccitata dal sostegno americano e quindi mobilitata su tutta Gerusalemme in termini religiosi; e da parte israeliana a una rinvigorita decisione da parte di Netanyahu di non cessare di costruire «come ha fatto - ha detto Bibi - ogni primo ministro israeliano».
Ricapitoliamo i termini della questione. Dal 1993, con l’accordo di Oslo, Israele e i palestinesi aprirono le trattative su tutta la questione territoriale: non fu mai messo in discussione se dovesse continuare o meno a costruire dentro gli insediamenti. I negoziati non se ne occupavano, puntavano a trovare una soluzione generale nel West Bank e a Gerusalemme. Lo stesso è accaduto durante i negoziati fra Olmert e Abu Mazen. Ambedue i negoziati, fra Barak e Arafat e fra Olmert e Abu Mazen, per la cronaca, hanno parlato di Ramat Shlomo come di una zona di Gerusalemme che potrebbe, una volta raggiunto un accordo generale per due capitali, restare a Israele. Quando più avanti, allo scopo di riprendere i negoziati interrotti con la guerra di Gaza, Obama chiese a Netanyahu di cessare dal costruire anche dentro gli insediamenti, Bibi indisse il freezing per dieci mesi nei Territori, ma non a Gerusalemme: gli americani lodarono tuttavia l’iniziativa che definirono un gesto di buona volontà verso la pace.
Ed eccoci all’oggi: Abu Mazen aveva accettato la ripresa dei colloqui. Ma ecco che Obama gli porge di nuovo un ramo altissimo su cui asserragliarsi. E non calcola, forse, che quando si dice Gerusalemme si rischia di dare fuoco a tutta l’area, e di mettere Fatah nelle fauci dei movimenti islamisti che puntano alla distruzione di Israele e non a un processo di pace. Gli scontri che hanno luogo in queste ore nascono dal movimento islamista degli arabi israeliani e da Hamas congiuntamente, ma anche il primo ministro Fayyad ha invitato i palestinesi ad andare a difendere la moschea di Al Aqsa come se Israele volesse occuparla, cosa lontanissima dalla realtà.
Lo spunto è stata l’inaugurazione lunedì dentro il quartiere ebraico della Città Vecchia dell’antica Sinagoga della Hurva restaurata. Hurva, si chiama così, «rovine», perché gli arabi l’avevano già distrutta due volte. Adesso gli ebrei hanno fatto gran festa inaugurandola, ma ciò è avvenuto solo nella piazza ebraica che la ospita fin dal 1700, secondo tutte le mappe che delimitano lo status quo. Non importa: adesso i movimenti islamisti sostengono a spada tratta, nel mentre i giovani vengono invitati in piazza per difendere la Moschea di Al Aqsa che non c’entra nulla, che gli ebrei la minacciano.
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