F ragile è la città. E fragili, malgrado i nostri cappotti inamidati e le facce impenetrabili quando ci incontri la mattina sui vagoni della metro, siamo tutti noi che la città la conosciamo da vicino. Anzi, dal di dentro. Perché è proprio dal di dentro che la città ti divora, fino a erodere parti di te, insufflandoti strane psicosi, ossessioni, paure. È il volto oscuro della città, che noi europei, per nostra cultura e abitudine atavica, abbiamo sempre visto come porto sicuro, abbraccio di solide mura, sicurezza di un salario e di un riparo quando l'invasore bussava minaccioso al nostro uscio. Ora, dicono, è arrivato il momento di ripensarci su, nell'ottica di una sostenibilità sociale che, purtroppo, appare ancora un miraggio. Almeno in territorio urbano.
Parte oggi, in Triennale, la quarta tappa di un'originale riflessione sull'incontro fra gli stili di vita contemporanei e le forme di convivenza sempre più globalizzate tipiche di una metropoli dei giorni nostri come Milano. Dopo La città infinita, del 2003, La rappresentazione della pena (2006) e La vita nuda (2008), apre i battenti La città fragile, collettiva curata da Aldo Bonomi che cerca di fare luce sugli effetti, spesso alienanti, del processo di globalizzazione sulla vita di tutti i giorni delle persone che vivono e lavorano in Lombardia.
Il titolo, per chi ha buona memoria, richiama quello di un progetto teatrale di Beppe Rosso e Filippo Taricco, divenuto poi anche un libro uscito lo scorso anno per Bollati Boringhieri. E anche in quel caso, protagonisti erano le crepe, le incrinature e i mondi sommersi della metropoli. Attraverso fotografie, video, mappe, illustrazioni e dati statistici, l'esposizione in Triennale, aperta fino al 10 gennaio 2010, vuole presentarsi innanzitutto come una testimonianza dei tempi che cambiano, producendo effetti che a volte oltrepassano la nostra stessa immaginazione. La città così piena di vita e possibilità diventa dunque, paradossalmente, terreno di coltura della solitudine, dell'incomunicabilità, della difficoltà di elaborare visioni del futuro condivise: un mosaico di alterità che faticano a riconoscersi e che spesso, con buona pace di Goya, generano mostri. Problemi di «ecosistema urbano» che, in fondo, già paventava anni fa il discusso ma a suo modo profetico Henri Lefebvre, riconoscendo nella città il vero motore dello sviluppo e del disagio, croce e delizia della contemporaneità. Ed ecco emergere, puntuali, le linee d'ombra del rancore, cui fanno da contraltare, almeno parziale, le iniziative di cura e l'operosità. Il percorso della mostra, che si snoda attraverso tre itinerari paralleli e intrecciati (fragilità, rancore, cura, mentre al visitatore spetta il ruolo di incarnare l'operosità in un sottile gioco interattivo), ha come filo rosso quelle che il curatore ha denominato le «cinque schegge del rancore»: società securitaria, biscotto nero il caso Abba, femminicidio, malaombra-i suicidi nel mondo, la secessione dei benestanti.
Tematiche che toccano la coscienza di ogni milanese, abituato a fare i conti con piccoli e grandi drammi urbani. Da queste «schegge», veri e propri sprazzi di vivo dolore, partono due percorsi distinti e idealmente contrapposti: da un lato trovano rappresentazione le fragilità metropolitane contemporanee che toccano l'universo giovanile, degli anziani, degli stranieri, delle donne, dei «matti» e, in generale, di tutti gli esclusi; dall'altro avranno spazio esperienze virtuose di pratiche di cura distinte in professioni della cura, scuola, cura femminile, esercito dei buoni, impresa sociale e impegno istituzionale. Il viaggio si conclude con un messaggio positivo, in uno spazio pieno di luce come è quello della piazza.
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