L’aristocratico sedotto dal comunismo

Maurizio Cabona

Cent'anni dalla nascita il 2 novembre. Per Luchino Visconti - massimo regista italiano perché bravo ovunque (cinema, teatro, opera) - tondo è l'anniversario, ma sfumato è ormai il ricordo di ciò che aveva amato e saputo ricostruire nello spettacolo, a cominciare dal declino della sua classe, sullo sfondo di un'imperfetta unità nazionale, compendiato in Senso, tratto da Boito; nel Gattopardo, tratto da Tomasi di Lampedusa; e nell'Innocente, tratto da d'Annunzio.
Il gattopardo è diventato il suo film più famoso, sebbene non fosse il migliore. Come il principe di Salina, Visconti aveva vissuto la fine di un'epoca, dunque si riconosceva nel personaggio affidato a Burt Lancaster; l'aristocratico squattrinato Tancredi (Alain Delon) era alter ego del padre Giuseppe; la ricca neoborghese Angelica (Claudia Cardinale) era alter ego della madre Carla.
A metà '800, la necessità di finanziare i privilegi s'era da tempo sostituita alla coppia doveri/diritti che, prima, giustificava l'aristocrazia. Essa ormai si riduceva a una borghesia, meno volgare ma talora altrettanto venale. Oppure scompariva. A inizio Novecento era diventato anche peggio, quindi ad affliggere Visconti era l'odio di sé e della sua classe agonizzante. Non aveva altro «messaggio» che cantare se stesso e il suo passato, tanto più che il disinteresse per le donne gli inibiva una prole. Si sentiva fin de race e lo ribadiva, quando raccontava la borghesia vista dall'aristocrazia, nel Gattopardo; l'aristocrazia vista dalla borghesia, nella Caduta degli Dei. Il proletariato l'aveva già mostrato nella Terra trema, tratto da Verga; in Bellissima, un soggetto originale; in Rocco e i suoi fratelli, tratto da Testori.
Visconti sapeva l'importanza dell'elemento di contrasto e in questi casi, a fare il contrasto con gli sfondi popolari, era lui stesso, col suo occhio motivatamente altero. Poi sapeva l'importanza della trasversalità, onde un film possa piacere a più persone possibili. Negli anni della sua maturità, del resto, il cinema era l'arte per eccellenza: lui vi si era dedicato intensamente, anche senza amarne l'ambiente, spesso rozzo. Sedotto dalla Germania del Wandervogel e della Jugendbewegung, poi da quella delle Sa (l'altro lato della Caduta degli Dei), Visconti era stato aiuto di Jean Renoir ai tempi del Front populaire, poi regista nell'Italia di Mussolini con una storia dell'americano James Cain, girata alla maniera francese: Ossessione. E girata proprio mentre il fratello cadeva a El Alamein.
Visconti avrebbe insomma potuto aderire a ognuno di questi sistemi politici, ma era troppo occupato a ideare il proprio sistema estetico. Aderì infine al comunismo, perché Togliatti capiva d'aver bisogno di un suo Eisenstejn e Visconti capiva che Togliatti non avrebbe imitato Zdanov: gli bastava un omaggio spagnolesco, come ricevere le sceneggiature che gli venivano mandate per il placet. Che veniva, perché nei copioni c'era sempre un taglio marxiano. Non era difficile: nel Manifesto, Marx aveva ripreso pari pari la critica conservatrice di Sismonde de Sismondi alla matura società borghese francese. Così Visconti poteva ben riprendere Sismondi per interposto Marx.
Dopo il consenso di Togliatti, il resto veniva da sé: imperdonato a d'Annunzio, il decadentismo veniva perdonato a Visconti; anzi, si trasformava in quello che poi effettivamente era: un modo per non esser borghesi. La carriera di Visconti si chiuderà con L'innocente, film oggi inconcepibile nel nostro cinema tanto quanto Il gattopardo o La caduta degli Dei. Togliatti poi non era solo un revisore per Visconti, peraltro più diplomatico di Vittorini; no, Togliatti era anche un patriota e non solo per aver fatto la prima guerra mondiale o, dopo la seconda, per aver fatto spuntare il tricolore nello stemma del Partito comunista. Quella fazione doveva esser anche nazione e dalla nazione, che il Pci avrebbe dovuto guidare, Togliatti non esigeva che fosse adamantina; lasciava le utopie al Partito d'azione.
Nel precedente film risorgimentale di Visconti, Senso, girato nei giorni caldi di Trieste insorta contro gli inglesi, la decadenza imperiale asburgica si rispecchiava in quella personale dell'ufficiale disertore (Farley Granger) più di quanto la fragilità sabauda trasparisse dalla passione della contessa Serpieri (Alida Valli), pronta a tradire i patrioti e - perciò - personaggio negativo della storia. Nel Gattopardo, che è il Senso del sud, affioreranno altre allusioni: al disagio che Visconti prova per la morte non più lontana; alle velleità mazziniane; al cinismo savoiardo; alla lotta di classe, coi ricchi soppiantati dai neoricchi. Amarezze periferiche, confluenti nell'amarezza centrale: l'Italia non era diventata quel che lui sperava.

Un Risorgimento tradito, come una Resistenza tradita: traditi però dall'Italia stessa, che dunque andava e va amata di più, nell'infedeltà. È quell'amore che il cinema italiano oggi, pieno di epigoni e privo di continuatori, non esprime più.

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