L’arte contemporanea? Un elegante «passo a due»

Fedora Franzè

Da pochi giorni Roma ospita un nuovo spazio della storica galleria veneziana Traghetto, attivo polo d’attrazione dell’arte contemporanea, che in un trentennio ha visto sfilare nelle sue sale artisti come Vedova, Santomaso, Licata, Plessi. Gli ambienti di viale Regina Margherita 158 vengono inaugurati dalle opere di Mirko Baricchi e Simone Pellegrini, due giovani artisti che presentano carte, tavole, tele, qualche scultura, per un passo a due espositivo dal titolo «Spezzare il tetto della casa». L’immagine è efficace: l’invito a entrare in uno spazio intimo e l’accesso attraverso una via inusuale, traumatica come un tetto che si spezza, si adatta bene all’emozione suscitata nel visitatore. In modi diversi Pellegrini e Baricchi invitano con sconcertante generosità a guardare cosa succede dentro la loro arte. Come se in mostra non fosse il risultato di una ricerca, chiuso nella sua confezione di traguardo raggiunto, ma la carne viva di un processo in fieri. In entrambi la dominante espressiva è quella del segno; la struttura disegnativa traccia, anche quando controvoglia, percorsi narrativi: nel senso di una storia potenzialmente infinita per Simone Pellegrini, o di una microstoria fatta di attimi sospesi come ricordi immobili o affiancati velocemente gli uni agli altri come in un fumetto, nel caso di Mirko Baricchi. La lunga striscia di carta di Pellegrini, intitolata «L’enfant perdu», ha l’aspetto di un rotolo liturgico medievale; una specie di storia dell’umanità in cui esseri smembrati fanno testimoniare la parte per il tutto, muovendosi in branchi, sciami, tra flussi acquei, simboli di terra e fuoco. Vi si trovano uccelli migranti, angeli cherubini, acque della fede, alberi della vita; creature dalle mille gambe che forse formano una sola entità, oppure cinquecento, con occhi dappertutto.
L’arte di Simone Pellegrini mostra un’altra storia della creazione, più vicina alla deriva dei continenti che alle sacre scritture, «autogestita», dolorante, incompiuta ma vitale. Qui la casa è l’altro a cui si tende: l’altro pezzo del proprio corpo o un’altra persona con cui rituffarsi nella corrente. A fianco le opere di Baricchi, cromaticamente eleganti e divertite solo all’apparenza: le sagome di conigli, di cani, di pinocchi, le scritte graffite, i trasferelli, i disegni che ricordano quelli incisi sui banchi, collocano l’immaginario dell’artista ligure nel mondo dell’infanzia.

Eppure i colori sono terrosi e a volte cupi, alcune figure sono fantasmi sfumati fino a scomparire, campiti di grigi, di nero, o bianchi come impronte di cancellino sulla lavagna. Anche qui gli oggetti e le figure «galleggiano» ma per assenza di gravità, immobilizzate dalla memoria e rese inoffensive.

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