L’arte ipnotica e gli inganni della percezione

Fedora Franzè

Seguendo le linee guida del progetto portato avanti dal 2002 dal Macro, il Museo d’Arte Contemporanea, si intrecciano nelle sale di via Reggio Emilia vari percorsi. Due mostre, due artisti diversi per età, nazionalità, scelta di codice espressivo, si confrontano fino al 7 maggio nel «segno allestitivo» di Odile Decq, architetto dello spazio in fieri del museo. Uno è Gianni Dessì, dalla Nuova Scuola Romana di San Lorenzo, affermatasi negli anni Ottanta all’estero e in altre città italiane, oggi di ritorno sulla scena della capitale con un’esperienza articolata e ricca di riconoscimenti. L’altro è Leandro Erlich, giovane argentino attualmente di casa a Buenos Aires, Parigi e New York , per la prima volta in mostra in un museo europeo. Dessì ha studiato da scenografo con Toti Scialoja all’Accademia di Belle Arti di Roma, una formazione seguita da esperienze di collaborazione e scambio con gruppi di attori e registi di teatro impegnati negli anni Settanta a trovare nuove formule di rappresentazione scenica. In seguito ha realizzato scenografie per il festival di Edimburgo, esposte in una personale della stessa città, e per il Teatro dell’Opera di Roma nel 2004. Parallelamente, sin dai primi anni d’attività, si svolge il suo itinerario pittorico, sostenuto da un senso della spazialità avvolgente e pluridirezionale. Nelle opere degli anni Ottanta e Novanta, il colore serve a identificare le differenze materiche e a misurare le distanze degli elementi in gioco. Non è l’operazione pura di Mondrian, la traduzione della realtà ai suoi minimi termini geometrici, attenta ad evitare errori nella trasposizione dei rapporti spaziali. Dessì piuttosto carica, copre di colore figure che hanno già una vita propria, però analogamente all’olandese ha un’esigenza di chiarezza, quasi un’ossessione misuratrice: i quadrati gialli (il giallo è prevalente e ha caratterizzato larga parte dell’opera dell’artista), arancioni, bianchi, neri, sono disposti su piani distinti. L’autonomia delle parti è a volte resa esplicita dai tagli: piccole tele emergono da fessure praticate nella tela principale, invadono la realtà fisica dello spettatore, perché qui la pittura coinvolge lo spazio che la ospita. Inevitabilmente il teatro, il proscenio, l’attesa dell'evento e, a volte, l’evento. Fin troppo facile nella Camera picta capire chi è e dov’è l’attore protagonista; nelle opere appese si trova nel centro, improvvisa animazione, senso del tutto verso il quale si precipita. Spesso la zona centrale è occupata da una specie di otto, o di simbolo grafico dell’infinito, modellato ed aggettante o leggibile nell’ombra doppia di un anello che sporge, o da una spirale. È davvero ipnotica questa arte che si concentra e che apre squarci d’ombra nel bel mezzo di allegre superfici come buchi neri, finestre su una dimensione sconosciuta.
Di sapore in apparenza più ludico la seria sperimentazione di Erlich sull’inganno percettivo. Anche in questo caso la rappresentazione scenica è centrale nell’elaborazione delle opere, qui legata al mondo del cinema e soprattutto a maestri della suspence come Hitchcock. L’artista gioca con i luoghi comuni visivi prendendoli in parola, come nel caso della scala orizzontale, che si presenta al visitatore esattamente come quando ci si affaccia da un piano alto e la si vede avvolgersi fino a terra, o rendendo plausibile allo sguardo l’impossibile. La sensazione di spaesamento deriva dalla dalla verosimiglianza delle scene.

«Era appassionante per me adoperare la macchina per ingannare il pubblico» confessava Hitchcock a Truffaut in una famosa intervista e come dopo un film del maestro inglese alla fine si esce soddisfatti, ingannati ma non derisi, perché la ricerca di Erlich è rigorosa pure nel darsi un fine estetico specifico, efficacia e bellezza nell’esplorazione dei confini dei sensi.

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