Cultura e Spettacoli

L’arte non è uno spreco meglio non trascurarla

«Culturame» è un neologismo coniato negli anni Cinquanta da un politico democristiano, Mario Scelba, per la cronaca, e ora riesumato da un politico del Pdl, Renato Brunetta, sempre per la cronaca. Dopo mezzo secolo, dunque, il termine sembra avere ancora una sua valenza, ma intanto la Dc non c’è più e questo dovrebbe indurre a qualche riflessione. Per esempio, sulla reale consistenza di quest’ultima come partito e come rappresentazione del Paese, ambedue spazzati via da Tangentopoli e dal voto degli italiani, a meno che non si voglia considerare Berlusconi come la reincarnazione di Fanfani, il Popolo della libertà come una rediviva Balena bianca e insomma che in questi ultimi vent’anni non sia successo niente. Se così fosse, abbiamo già dato.
Renato Brunetta è un politico popolare, intelligente, polemico e narciso. Se l’è presa con l’attore e regista Michele Placido, che è in fondo la sua copia conforme e non sorprende che i due si rivedranno in tribunale. Entrambi sono però degli stereotipi, quello del politico che irride chi fa cultura, derubricata appunto a «culturame», e quello dell’intellettuale che si dichiara vittima del potere. Se ne farebbe volentieri a meno.
Il peggior lascito della Dc fu quello di far intendere che la cultura fosse una cosa di sinistra. Non era vero, ma siccome dall’altra parte c’era stato di mezzo il fascismo, bisognava far finta che non ci fosse stato niente e dedicarsi a cose più serie: le banche, il potere nel pubblico impiego, le nomine negli enti statali e parastatali. Fare cultura, interessarsi di cultura, era insomma una perdita di tempo, buona per chi aveva del tempo da perdere. La sinistra ringraziò e incamerò tutto, compreso quel cinema che quel buontempone del Duce aveva definito «l’arma più forte» e a cui aveva dato Cinecittà e la Mostra di Venezia... Su quel regalo la sinistra investì e di quel regalo ha finito con il vivere di rendita, mettendo a frutto quella «conquista della società civile» che Gramsci aveva mutuato proprio da Mussolini, il cui fascismo era un prodotto delle avanguardie del Primo Novecento e lui stesso l’unico politico del suo tempo in grado di visitare una esposizione futurista o un palazzo razionalista sapendo di cosa si trattasse. Ci era cresciuto dentro.
Ora, errare è umano, ma perseverare è diabolico, e naturalmente il punto del contendere non sono gli sprechi, i tagli al posto dei contributi, la privatizzazione della cultura e cose così. Il punto è l’atteggiamento snobistico, dietro cui si nasconde anche un complesso di inferiorità, con cui ci si dichiara adepti di una «cultura» del fare, l’unica in sintonia con i «bisogni della gente», la quale, è noto, lavora, fatica e non perde tempo dietro un libro, un film, un concerto... Certo, la cultura è un lusso, anche se nei secoli è stata la nostra unica, vera risorsa, quella che ancora oggi resta il nostro sgualcito biglietto da visita. Un lusso necessario, non uno spreco, e una classe politica di governo che non lo capisce si condanna alla propria scomparsa.

E senza lacrime ai funerali.

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