Solo a un eclettico come Philippe Daverio si poteva affidare una mostra sul tema della lana che concepisse al tempo stesso il carattere mitico del filo (da quello di Arianna in poi), il suo valore storico (il made in Italy) e i possibili impieghi in mano ad artisti contemporanei. Tutto questo ha preso forma in «Sul filo della lana» (sino all11 settembre). Non poteva che essere la cittadina piemontese, con le antiche fabbriche ancora ben visibili, a ospitare unesposizione che omaggiasse il prodotto tessile italiano; e la mostra, suddivisa in tre sedi, corrispondenti alle sezioni mito, fabbrica e fantasia, offre anche loccasione per conoscere le riparate e timide colline biellesi.
La fabbrica, a trenta chilometri dal centro abitato e arroccata lungo la Vallefredda, è quella della Ruota, ottimo esempio di archeologia industriale ottocentesca che ha mantenuto il sapore della storia: per loccasione linstallazione dello Studio Azzurro lha trasformata in un luogo della memoria dove si narra il percorso che un tempo faceva la lana grezza per trasformarsi in raffinato tessuto. Il tutto grazie al lavoro e alla fatica degli uomini e allenergia scaturita dal fiume che muove la grande ruota. La fabbrica Pria, anchessa dismessa, ospita invece in città la sezione dedicata alla fantasia: qui, in uninteressante installazione che fluttua in ampi spazi, sono state radunate opere di artisti contemporanei che hanno adoperato la lana o i suoi derivati nelle loro creazioni. Da Man Ray a Kounellis, dai feltri di Beuys ai morbidissimi montoni a misura naturale di Lalanne e, deliziosa, la piccola installazione della milanese Clemen Parrocchetti che interpreta il mito della lana in chiave femminista (con lago e il filo come strumenti di sottomissione), senza trascurare un giusto piglio ironico.
Il cuore della rassegna resta comunque il Museo del Territorio di Biella dove, tra gli antichi chiostri di San Sebastiano, Daverio ha radunato uninfinità di prodotti artistici, a dimostrazione che il filo della lana nel corso della storia dellarte davvero si avvolge in un gomitolo cangiante. E diventa mito. Se infatti abbiamo - a Biella in anteprima mondiale - la più antica testimonianza dellesistenza del tessuto con alcuni frammenti di terracotta provenienti dalla Boemia su cui è rimasta impressa limpronta di un filo di lana (datazione: 25mila anni fa), dallUzbekistan arriva una tenda nuziale, la yurta, utilizzata come dimora dalle popolazioni delle steppe. E poi ancora arazzi cinquecenteschi accostati a quelli moderni tra i quali spicca un tappeto realizzato in Afghanistan durante linvasione sovietica degli anni Ottanta, dove i motivi esornativi sono carri armati ed elicotteri stilizzati.
Tra documenti importanti (come un codice prestato dallAmbrosiana di Milano che illustra il lavoro dei frati lanaioli nel Quattrocento) e reperti da guardaroba di lusso (vedi il cappotto di Churchill), laspetto forse più interessante è riscontrare la presenza simbolica del filo di lana nella pittura. Affascinato dal mito di Aracne, che osò sfidare la dea Minerva nellarte della tessitura, fu Tintoretto. Alle Parche che tessono la vita e poi ne recidono il filo sispirarono Odilon Redon, Francesco Salviati e Bernardo Strozzi. E allomerica Penelope si rivolse il rigoroso Mario Sironi. E quel filo rosso - che permette la salvezza di Teseo nel labirinto, ossia delluomo nelle vicissitudini della vita - è presente nei vasi attici, nelle icone russe tra le mani delle Madonne e nellArianna di De Chirico.
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