Pamela Anderson, forte della sua quinta siliconata, prese subito di petto la questione. E urlò: «Caro mio, i soldi per pagarti il quadro non li ho... Sai, in questo periodo ho avuto un po’ di spesucce...». Così il pittore che le aveva fatto il ritratto oggi è ancora lì con la tela, nel disperato tentativo di sbolognarla (la tela, non la Anderson...) a qualcuno. E che dire dell’attore australiano Paul Hogan, alias il celebre Crocodile Dundee, che, tornato in patria per il funerale della madre, si è visto ritirare il passaporto per una serie di «pendenze» fiscali piuttosto cospicue? Per non parlare dei coniugi Beckham, fulminei - dopo aver consultato un esperto in ottimizzazione dei bilanci familiari - nel licenziare ben 14 persone del proprio staff.
Ma da ieri la palma della star più tirchia del globo spetta di diritto al quarantaseienne artista inglese Damien Hirst. Lui è la mente, gli altri sono il braccio. La sottile (mica tanto sottile...) linea di confine che separa il genio dalla manovalanza si insinua tra due cifre: da una parte 215 milioni di sterline (il patrimonio di Hirst), dall’altra 20 mila sterline (lo stipendio annuo che Hirst offre per assumere un collaboratore).
Il mito e lo sfigato sotto lo stesso tetto, quello dell’atelier in versione catena di montaggio targata Hirst: il nome-simbolo di un’arte che «non» è arte, ma che - proprio in forza di questa sua negazione - è diventata l’arte ambita dai collezionisti miliardari, tutti sbavanti per teschi diamantati da 50 milioni di sterline e animali in formaldeide da 111 milioni.
Ieri il Mail on Sunday giocava a fare lo scandalizzato: «L’artista più pagato del mondo offre una paga da fame a un suo potenziale assistente»; il quale però, nel momento in cui potrà vantare nel suo curriculum una collaborazione così prestigiosa, sarà destinato a sua volta a fare un sacco di soldi.
Qualcuno ha «dipinto» Hirst addirittura come il «pittore» (pittore lui? Ma se non ha mai preso un pennello in mano...) più tirchio del pianeta quando si tratta di retribuire chi lavora per lui. Di «ragazzi di bottega» Damien ne ha già cento, ma gliene serve un’altro per organizzare forse una «carica dei 101» in versione YBAs (Young British Artists) la corrente di cui Hirst è l’incontrastato «maestro». Maestro di cosa non si sa bene, visto che Damien risulta il capofila di un puro discorso di marketing globalizzato dove l’ingresso nei musei non è finalizzato alla contemplazione dei capolavori ma allo smercio selvaggio di gadget-paccottiglia, ovviamente con la «firmati» dell’autore; da Damien Hirst a Jeef Koons, fino all’ultimo dei Germano Celant.
La stampa, su queste dinamiche, preferisce glissare, privilegiando invece l’aspetto bozzettistico della vicenda: «Hirst sta cercando un apprendista di talento per i suoi lavori di pittura: badate bene, non un ragazzino appena uscito dal college e, quindi, senza alcuna esperienza, bensì uno che abbia “una pennellata forte e decisa”, che conosca “la teoria dei colori” e che abbia “competenze da disegnatore e da pittore”...». Tutta roba che, una volta ammessi nello studio «industriale» di Hirst, non servirà assolutamente a nulla: nei «padiglioni creativi» di Damien si realizza infatti tutto, eccetto che pittura. Né nella sua accezione classica, né in quella più arditamente moderna. Quello che Hirs chiede ai suoi dipendenti potrebbe farlo chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità e manualità: roba da travet dell’arte per gonzi, altro che «pennellata forte e decisa», «teoria dei colori» e «competenza da disegnatore e pittore»...
Il pollo che beccherà il contratto co.co.co. avrà un salario di «appena 20mila sterline l’anno».
Nessun commento ufficiale da parte di Hirst. A conferma forse che, perfino quella del silenzio, può essere un’arte.
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