Gian Micalessin
da Teheran
«Delle sanzioni ce ne freghiamo». Così urlava giovedì il presidente Mahmoud Ahmadinejad davanti alla folla entusiasta. Il direttore dell'Aiea Mohammed El Baradei conferma. L'Iran non solo se ne frega del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e ignora le sue richieste, ma ne ha anche sfidato l'autorità accelerando le attività nucleari per arrivare alla produzione del primo quantitativo d'uranio arricchito. «L'Iran avrebbe dovuto fermarsi - ha detto un funzionario dell'Aiea sintetizzando il contenuto del rapporto - ma ha continuato gli esperimenti e non ha sospeso alcuna attività nel campo dell'arricchimento, dunque non ha soddisfatto le richieste». Il verdetto, puntuale ed impietoso, ha segnato ieri lo scadere dei trenta giorni fissati dal Consiglio di sicurezza dell'Onu per la cessazione di tutte le attività di arricchimento dell'uranio. Ma se il verdetto appare inoppugnabile, la pena lo è assai meno. Anzi non sembra neppure contemplata. George W. Bush, in un intervento pronunciato subito dopo la presentazione del rapporto, parla di un mondo «unito e preoccupato», promette di lavorare ad una soluzione diplomatica, ma tralascia qualsiasi riferimento a quelle sanzioni minacciate dal veto di Russia e Cina. E il ministro degli Esteri britannico Jack Straw si limita a chiedere al Consiglio di Sicurezza maggiori pressioni. Pressioni che, a sentire John Bolton, irriducibile ambasciatore di Washington all'Onu, dovrebbero concretizzarsi in una risoluzione garantita dall'articolo 7 e dalle sue clausole sull'uso della forza in caso d'inadempienza. Ma tutto sembra, per ora, ancora di là da venire, e legato a nuove, sfiancanti trattative. Dunque di che devono mai preoccuparsi gli iraniani? A Teheran lo ripetono un po' tutti, con un atteggiamento che oscilla tra la più disinvolta indifferenza dei comuni cittadini a quello di aperta sfida di tutti i principali leader.
L'ultimo a conquistar la platea dopo il «me ne frego» di Ahmadinejad è l'ex presidente Hashemi Rafsanjani chiamato, ieri, a pronunciare il sermone del venerdì davanti alle migliaia di fedeli riuniti nel piazzale dell'Università di Teheran. Ma per non dare soddisfazione a Washington e non sembrar troppo allineato con un presidente artefice dell'ultima amara sconfitta della sua carriera, l'ayatollah Rafsanjani si guarda bene dall'attribuire troppa importanza alla contesa nucleare. Discetta per un'ora e passa di tutti i problemi del Paese, osserva indifferente un fedele scagliargli contro una ciabatta e accusarlo, prima d'esser agguantato e trascinato via in orizzontale, di «tradire il sangue dei martiri». Si dilunga celebrando la sabbia del signore mandata ad abbattere il 25 aprile di 25 anni fa gli elicotteri e i soldati americani in volo per liberare gli ostaggi dell'ambasciata di Teheran. Solo dopo quel diluvio di parole rammenta che «nessuno può fermare la corsa del Paese verso la conoscenza» e rivolto agli Stati Uniti li ammonisce a muoversi con cautela considerando con molta attenzione le conseguenze delle proprie scelte. «Non causate problemi a voi stessi e a questa regione, evitate ogni azione che possa crearli» sollecita il due volte presidente che durante la corsa per il terzo mandato prometteva di riallacciare i rapporti con il «Grande Satana».
Se non si agita lui, ultimo e unico oppositore degli ultraconservatori al potere, perché dovrebbero preoccuparsene loro.
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