L’avanzata

RomaSono passati trent’anni, ma sembra un secolo. Solo Umberto Bossi e Bobo Maroni non potranno mai dimenticarsi dei primi tempi quando scrivevano con la vernice slogan indipendentisti sull’autostrada. O quando il Senatùr, dando sfogo al proprio estro poetico, vagheggiava le epoche passate nelle quali il casolare lombardo rappresentava l’anima della famiglia tradizionale padana.
Da lunedì scorso la Lega Nord è entrata in una nuova fase della sua storia. Sembra una fotografia sbiadita quella di Bossi che rivendica: «Ce l’abbiamo duro» o della marcia su Roma dei 10mila padani che reclamavano più autonomia. Da lunedì scorso alla chiusura dei seggi il Carroccio è molto di più dell’anima di quel Nord che invoca il «federalismo subito», è molto di più dei due governatori di Regione, Cota e Zaia, è nel 14% dell’Emilia Romagna, nel 6% di Marche e Toscana e nel primo consigliere regionale umbro. A rovinare la festa solo l’insuccesso e le recriminazioni di Renato Brunetta a Venezia e la sconfitta di Roberto Castelli a Lecco, da vent’anni feudo leghista.
«Poche chiacchiere e tanti fatti», ha commentato il ministro dell’Interno Maroni sull’organo di partito, La Padania. Ma se la Lega festeggia non è solo merito di quella capillarità dell’organizzazione territoriale che ha fatto dire all’Osservatore romano che il Carroccio ha «il radicamento che fu della Dc e del Pci», ma anche di una squadra compatta guidata dallo stratega Umberto Bossi, affiancato dal titolare del Viminale e dal coordinatore delle segreterie federali Roberto Calderoli. Un team affiatato che ha saputo con pazienza far crescere nuove personalità.
In primis, quella di Luca Zaia, il ministro delle Politiche agricole che ha difeso il made in Italy e che appena insediatosi come neo governatore veneto ha promesso che «non farà epurazioni» e che «seguirà l’appello del presidente Napolitano alle riforme». Chi se lo sarebbe mai aspettato da un esponente di un partito che proprio a Venezia conclude il rito celebrativo del dio Po, nume tutelare della Padania? Lo stesso vale per Roberto Cota, capogruppo alla Camera, un novarese che avrà in mano le leve del potere della ex capitale sabauda, non ultime quelle del colosso Intesa Sanpaolo.
Non è del tutto corretta l’equazione secondo la quale la vittoria leghista coinciderà con un’approvazione più spedita dei decreti attuativi del federalismo fiscale e con una severa ipoteca sulla candidatura a sindaco di Milano che lo stesso Bossi ha scherzosamente (fino a un certo punto) rivendicato. Né si può semplicisticamente affermare che il rafforzamento del partito di Via Bellerio determinerà automatiche fibrillazioni nella compagine governativa. «Noi non siamo per il manuale Cencelli», ha ribadito Maroni.
La partita verrà giocata con la consueta abilità e con la tradizionale pazienza: d’altronde se il Pd nel Nord operaio è ormai da considerarsi un panda, è anche per la paziente opera leghista di divulgazione delle politiche attuate dal governo Berlusconi e dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, contro la disinformatija della sinistra.
I veri problemi sono altri e di due ordini di grandezza. Il primo è l’esigenza di preservare il federalismo dalle ubbie del presidente della Camera Fini che mal sopporta l’asse privilegiato tra Bossi e Berlusconi. Ma sulle capacità di mediazione del Senatùr non c’è da diffidare.

Il secondo è la promozione di una nuova classe dirigente: ora che i «giovani» Zaia e Cota sono impegnati, che Flavio Tosi è ben saldo nella sua Verona e che Andrea Gibelli sarà il nuovo vicepresidente lombardo, bisognerà promuovere nuove energie. A partire dal brillante segretario emiliano Angelo Alessandri, dal capogruppo del Senato Federico Bricolo e dall’instancabile europarlamentare milanese Matteo Salvini.

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