L’avvocato che vuole Ratzinger in tribunale

Gridare al complotto non è sempre il modo più efficace di difendersi, ma è indubbio che quanto sta emergendo dagli scandali degli abusi del clero sui minori, e dalle loro ricadute mediatiche, indichi con una certa chiarezza l’obiettivo di colpire Benedetto XVI, depotenziare il suo pontificato e possibilmente portare lui e l’intera Santa Sede sulla sbarra degli imputati. Un disegno peraltro dichiarato dagli studi legali che negli Stati Uniti sono specializzati nell’assistenza delle vittime degli abusi.
Nel 2005 l’avvocato Daniel Shea, difensore di alcune vittime di abusi perpetrati da un sacerdote a Galveston, aveva portato la causa davanti alla Corte Distrettuale di Harris County, in Texas, aprendo un procedimento a carico di Joseph Ratzinger e del suo braccio destro Tarcisio Bertone, accusati di «cospirazione contro la giustizia» per avere «coscientemente coperto i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali». La Corte aveva respinto la possibilità di processare Ratzinger, diventato nel frattempo Papa, sulla base del Foreign Sovereign Immunities Act, una norma che disciplina l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione americana. A difendere il Pontefice era stato l’avvocato Jeffrey Lena, che oggi ha un ufficio anche nei sacri palazzi e continua a occuparsi di tutti i contenziosi che oppongono la Santa Sede alle vittime degli abusi dei sacerdoti.
A fornire al New York Times i documenti sulla storia agghiacciante di padre Murphy, il prete responsabile di abusi su circa duecento studenti di un istituto per sordomuti nella diocesi di Milwaukee, è stato lo studio legale Anderson & Associates, con sede nella Grande Mela. Da quei documenti, come anche il Giornale ha ricostruito ieri, si capisce come la vicenda di padre Murphy sia approdata in Vaticano soltanto nel 1996, due anni prima che lo stesso sacerdote morisse. Ma si evince anche come la Congregazione per la dottrina della fede se ne sia occupata, con i suoi tempi e i suoi ritmi, e anche in base a quali considerazioni i più stretti collaboratori del cardinale Ratzinger abbiano alla fine deciso di non dimettere dallo stato laicale il prete colpevole, ormai moribondo.
L’obiettivo dello studio legale newyorkese è quello di dimostrare una qualche responsabilità della Santa Sede che pure informata, avrebbe coperto il colpevole. Pochi mesi fa, nel novembre 2009, la Corte Suprema degli Usa ha deciso di chiedere chiarimenti e delucidazioni al Solicitor General, una sorta di avvocato generale del ministero della Giustizia, sulla causa che vede contrapposto un certo John V. Doe e la Santa Sede. Doe è un nome fittizio, usato per coprire l’identità della vittima, che è difesa proprio dall’avvocato Anderson, lo stesso che assiste alcune delle vittime di padre Murphy. L’appiglio legale per cercare di trascinare in giudizio il Vaticano è una legge dello stato dell’Oregon secondo la quale la responsabilità delle azioni di un dipendente può essere fatta ricadere sulle spalle del suo datore di lavoro. Dunque la responsabilità degli abusi del prete che violentò John Doe potrebbe ricadere sulla Santa Sede, in quanto responsabile ultimo, per via gerarchica, del sacerdote.


Ciò a cui puntano gli avvocati della Anderson & Associates – basta navigare nel loro sito per rendersene conto – è dunque far sì che a rispondere sui risarcimenti alle vittime sia direttamente il Vaticano. Un obiettivo sul quale la Corte Suprema ha chiesto un parere al Solicitor General del ministero di Giustizia e che mira a rendere inefficace l’immunità garantita dal Foreign Sovereign Immunities Act.

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