L’edilizia popolare ha fallito qualcuno lo dica a Di Pietro

Ma che paese è mai l’Italia? Nei giorni scorsi, il ministro Antonio Di Pietro annuncia un nuovo piano per l’edilizia popolare che costerà una cifra tra 1,2 e 1,5 miliardi di euro e subito incassa il plauso dell’opposizione, oltre al consenso interessato degli imprenditori delle costruzioni. E tutto ciò mentre gli enti locali - di qualsiasi colore e latitudine - a loro volta promettono nuove case (solo Milano ha approvato un piano straordinario per 9mila alloggi in tre anni).
Le ragioni che militano contro tale progetto richiederebbero un volume più che un articolo. Qui ci si limiterà a elencare le fondamentali. In primo luogo, nuove case popolari significa altra spesa pubblica e quindi ulteriori tasse. L’economia italiana è quasi ferma e tale salasso aggiuntivo la danneggerà ulteriormente. Ma ci sono anche ragioni più specifiche.
Storicamente, l’edilizia popolare rappresenta un fallimento clamoroso. Si tratta di uno spreco colossale che ha sottratto forza all’Italia produttiva (compresa la povera gente) e ha innescato una redistribuzione che solo marginalmente ha avvantaggiato i più deboli. Come proprio Il Giornale mostrò in un’inchiesta di due anni fa, molti papaveri della razza padrona (politici, sindacalisti, amici degli amici) vivono in prestigiosi appartamenti pubblici a canone «moderato»; e questa è solo la punta dell’iceberg.
Perché pure quando ci si avventura nelle periferie delle grandi città si deve constatare che non sempre gli appartamenti destinati ai più bisognosi sono abitati da loro, dato che gli sfratti sono difficilissimi e quindi chi ottiene il privilegio di un’abitazione lo lascia in eredità a figli e nipoti. Per di più, la gestione finanziaria di tale patrimonio è disastrosa: a causa degli organici pletorici delle agenzie regionali e anche dell’alta morosità. In conclusione, mancano soldi per le riparazioni, i quartieri sono totalmente degradati e l’incuria regna sovrana.
C’è poi un’ultima considerazione da farsi. Se anche fosse stato gestito diversamente il progetto sarebbe egualmente fallimentare. Se si vuole aiutare la povera gente si trovi il modo di farle avere un aiuto monetario, in modo che recuperi un appartamento in affitto dove desidera. Si eviti però di costruire ghetti in cui riunire disperati, disadattati, tossicodipendenti e immigrati in cerca di fortuna. Il disastro francese dei quartieri Hlm, teatro di autentiche rivolte nei mesi scorsi, dovrebbe avere mostrato a tutti che costruire casermoni per i poveri e metterli tutti insieme a condividere la loro disperazione produce solo conseguenze disastrose.
In una fase caratterizzata da notevoli ondate migratorie, lanciare simili progetti significa porre le basi per una disgregazione crescente della società.

Da anni l’onorevole Renato Brunetta si batte per far capire quanto sarebbe ragionevole regalare le case popolari a quanti oggi vivono lì dentro, trasformandoli in proprietari e innescando dinamiche virtuose, chiudendo una volta per tutte tale triste capitolo. Peccato, però, che siano così pochi a comprendere la lezione.

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