L’ELEGANZA DEL DISINCANTO

Nella foto che Henri Cartier-Bresson scattò nel 1952 all’allora ottantenne Paul Léautaud, c’è un concentrato di storia e di memoria. Il vecchio signore che si offre alla macchina fotografica senza degnarla di uno sguardo indossa gli abiti lisi e fuori moda degni di un barbone, se a nobilitarli non ci fosse un tocco di civetteria: un foulard annodato negligentemente intorno al collo, la catena dell’orologio che attraversa il gilet da un occhiello a una tasca, un cappello che mostra l’usura del tempo, ma anche la cura che nel tempo gli è stata riservata, la strisca di velluto che lo circonda lucida e ben spazzolata. Seduto su una sedia da giardino, il bastone da passeggio in grembo, gli occhi chiusi per riposare una vista che andava sempre più declinando, ciò che colpisce in quel corpo minuto, fragile all’apparenza, sono le mani: grandi, nodose. È grazie a queste ultime che dal 1893, e per più di mezzo secolo, giorno dopo giorno Léautaud ha raccontato la sua via in un Journal, un diario di pagine che, raccolte, fanno 19 volumi, una piccola biblioteca, in pratica. È sempre grazie a loro che il solitario scrittore ha in quell’arco di tempo fatto a meno di qualsiasi aiuto: dal cucinarsi il pranzo al lavarsi la biancheria, dal tagliare la legna per il riscaldamento ad aggiustare una poltrona, Léautaud ha sempre fatto tutto da solo, ha sempre mantenuto e difeso la propria indipendenza. Così, in quella foto c’è il ritratto di un uomo che ha fatto della scrittura una ragione di vita e della propria libertà fisica e intellettuale un comandamento.
Classe 1872, Léautaud era in realtà una figura del Settecento nata per sbaglio nel secolo successivo e che, per ironia della sorte, si era poi ritrovata a maturare e invecchiare nel tempo della modernità, delle masse e della democrazia, tutte cose che gli procuravano il massimo disgusto. Ma quella foto racconta anche l’ultimo vero esemplare di quella civiltà delle lettere propria della Francia, la cui ombra spiega ancora oggi il ruolo e il peso particolari che lì hanno gli intellettuali, l’attenzione che li circonda, le istituzioni che li proteggono, la cura che vien loro dedicata, l’idea che siano un patrimonio nazionale.
Adesso Sellerio manda da noi in libreria Amori (traduzione di Alessandro Torrigiani, 312 pagine, 14 euro), che in un unico volume raccoglie tre piccoli-grandi capolavori di Léautaud: Amori, appunto, da cui prende il titolo, Il piccolo amico e In memoriam e li fa seguire da un saggio puntuale di Giuseppe Scaraffia, ovvero il ritratto di un individualista misantropo chiuso nel proprio mondo come se fosse una cella: «Sarei stato un ottimo prigioniero capace come sono e sono sempre stato di stare solo giornate intere, seduto immobile, assorto nelle fantasticherie». Sarebbe interessante se Sellerio pensasse anche a una nuova edizione italiana del Diario prima ricordato, di cui oltralpe l’editore Mercure de France ha pubblicato, quattro anni fa, un’edizione scelta, dal titolo Journal Littéraire, incredibile racconto di una società letteraria, ma non solo: gusti, abitudini, stili di vita, amicizie, inimicizie, avvenimenti politici, considerazioni sociali, bilanci esistenziali.
Morto nel 1956, l’esistenza di Léautaud attraversò la Belle Époque e la Grande guerra, i folli anni Venti e la crisi del ’29, il Fronte popolare e la Seconda guerra mondiale, l’epurazione e la ricostruzione. Sempre e comunque, inesauribile e instancabile, raccontò però soprattutto sé stesso: il suo amore per gli animali e il suo disprezzo per il genere umano, la sua avarizia e i suoi gesti d’affetto, il rifiuto delle convenzioni e delle forme, la passione, infantile e carnale, per le donne. Per uno che fin dalla giovinezza si era abituato a non farsi illusioni, in primis nei propri confronti, che poteva dire di non credere a nulla, di nulla, su nulla, per nulla, il corteo retorico degli ideali e dei diritti doveva apparirgli, più che grottesco, inutile. Il disprezzo per gli onori e le convenzioni gli impedirà di correre dietro ai primi e ossequiare le seconde: sotto un’apparente aridità, dietro il non volersi assumere responsabilità che non gli competevano, c’era una fermezza di carattere rara in una società intellettuale dove il protagonismo e l’esibizionismo sono merci costanti.
Il suo piacere, lo abbiamo accennato, fu la sua scrittura: come l’erotismo, lo liberava dalla sensibilità, diveniva uno stile di vita nel quale l’autobiografismo era il tratto principale.

I romanzi brevi che compongono Amori ne sono la più perfetta testimonianza, concentrato di innocenza e cinismo, elegante crudeltà e distacco. «Nessuno mi avrà conosciuto. Sono stato, sotto il mio riso, il disincanto, la disperazione assoluta. Non l’ho mai mostrato per pudore, nel timore del ridicolo».

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