Politica

L’Emilia vuole finanziare le coop per legge

Asili nido, farmacie, associazioni e Arci: ecco come il partito-piovra controlla la vita dei cittadini. Ma qualcosa sta cambiando: dal ’96 i Ds hanno perso il 24% dei propri iscritti

Pierangelo Maurizio

Il sindaco e la farmacista sorridono in bianco e nero dagli anni ’50. Il sindaco è Giuseppe Dozza, ex capo partigiano, già dirigente dell'Internazionale e del Fronte popolare in Francia, figura carismatica. La farmacista è Vittorina Tarozzi, l’ex «staffetta», battagliera pasionaria della lista Due Torri, la «lista civica» con cui si è sempre presentato il Pci a Bologna e dipendente delle farmacie comunali. Un'istantanea che vale mezzo secolo.
Dalla culla alla tomba, passando per la farmacia. Gli asili nido bolognesi sono sempre stati il vanto dei vecchi comunisti e di recente hanno commosso perfino Piero Fassino. Il partito quand’era il Partito si occupava di tutto e il funerale del socio-lavoratore che cessava di dare il suo contributo alla costruzione del socialismo era a spese della coop. Le associazioni collaterali ti organizzano il tempo libero meglio che al Club Med. Ma poche cose come le farmacie comunali riassumono al meglio il «socialismo reale» al culatello.
Il Comune fino a poco fa ne aveva ben 35, raccolte nell’Azienda farmaceutica municipale (Afm). La prima la inaugurò il sindaco Giuseppe Dozza, il 19 agosto del ’57; secondo un dettagliatissimo piano di Botteghe Oscure del ’49 «per dare le medicine ai poveri». Poi sono servite anche ad altro.
Nel ’99 Walter Vitali è riuscito a venderle ai tedeschi. Pensava che magari il ricavato potesse servire a finanziare gli asili nido immortalati anche dalla copertina di Time. Cosicché in consiglio comunale, Pier Giorgio Nasi, consigliere di Rifondazione, contraria alla vendita, ha ricordato come «numerosi partigiani e rimpatriati dalla Cecoslovacchia sono stati assunti nelle farmacie e nelle altre aziende comunali». Tolta la patina della commozione, va precisato che i «rimpatriati dalla Cecoslovacchia» erano quei partigiani rossi inseguiti dalla giustizia italiana, a torto o a ragione, per i massacri compiuti in Emilia dal ’45 al ’48 e che il partito aveva fatto fuggire all’Est e poi rientrare in Italia.
Storie di un mondo fa. Ma sono un simbolo del «modello emiliano». Perché il partito nell’Italia rossa da sessant’anni (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche) cerca di esercitare il controllo su ogni categoria. Gli operai attraverso la Cgil, chiaro, si dirà: troppo facile. Ha da sempre una presenza massiccia, ad esempio, anche tra quelli che magari in cabina elettorale tenderebbero a girarsi da un’altra parte, gli artigiani. E forse l’uso sapiente degli appalti da parte del «pubblico» («ti do lavoro e ti controllo»), più della mitologia sugli operai che si sono fatti padroni, spiega il numero da record di microimprese e imprenditori di se stessi.
Poi ci sono il Collegio costruttori, l'associazione dei palazzinari inevitabilmente legati alle vicende dei Piani regolatori; al resto ci pensano il controllo politico di ogni nomina, dal primario al rettore, le Usl, gli enti locali, le opere pie privatizzate, le aziende pubbliche ed ex pubbliche. Così la borghesia comunista, i gassisti, gli elettricisti, quelli delle ex municipalizzate e gli ospedalieri, impiegati, artigiani e i soci coop, tutti insieme formano lo zoccolo duro elettorale in Emilia passando per la Toscana e l'Umbria (meno le Marche), dall’orientamento piuttosto conservatore.
E poi si è attinto a piene mani, negli Anni ’60 e ’70 soprattutto ma anche dopo, alle casse dello Stato capitalistico. I retaggi di questo mix tra metodi da socialismo reale e prestazioni sociali da Paesi nordici sono ancora ben visibili. Qualche dato può aiutare. Nel settore non statale (cioè comuni, aziende pubbliche, ospedali, eccetera) ogni mille abitanti la Toscana ha 31,2 dipendenti pubblici, l’Emilia 29,7, contro i 26 del Piemonte, i 24 della Lombardia e i 24,4 del Veneto (la media nazionale è del 28,3). A Bologna ogni 38 persone una ha una pensione.
Oddio, la «foresta pietrificata» ha cominciato a mostrare vistose crepe, per pura casualità dopo l’89 e la scomparsa del Partito comunista. A Bologna stabilità e mito della leadership sono andati in frantumi con l’ultimo sindaco venuto dal Pci, Walter Vitali, prima della vittoria di Giorgio Guazzaloca: «La crisi esplose il 24 aprile 1995, il giorno dopo le elezioni comunali» racconta Vitali, «quando scelsi gli assessori, persone non legate a meccanismi di partito». Le tensioni che adesso attraversano la giunta di Sergio Cofferati sembrano dire che certi nodi sono sempre lì.
Ma anche in presenza di quella che i politologi chiamano una diminuita capacità di coordinazione dei Ds ed eredi Pci, il «modello» resiste. Si respira nell’aria. Le «libere associazioni», cioè quelle in teoria «apolitiche», iscritte all’Assessorato Ambiente, Sport e attività ricreative del Comune di Bologna sono 400. Praticamente non c’è bolognese che non abbia almeno una tessera in tasca. In Emilia Romagna l’Arci ha 266mila iscritti (53mila a Bologna città e gli altri nel resto della Regione) e da queste parti complessivamente la metà di tutti gli iscritti nazionali. La Cna, la Confederazione nazionale dell’artigianato, un’altra organizzazione ritenuta storicamente vicina al partito, a Bologna e provincia conta 27mila soci - c’è anche il settore «imprenditoria straniera» - più 11.500 artigiani pensionati: tenuto conto che gli abitanti della provincia bolognese sono 800mila, fa un tesserato Cna ogni 22.
Non solo numeri. Il «modello» si mastica, si fa carne della propria carne. Non è vero che i comunisti mangiano i bambini. Però i bambini mangiano pane e socialismo reale all’emiliana: casualmente nei supermercati qui il monopolio assoluto è targato «Coop» e «Conad» (Lega delle cooperative).
Sarà per tutto questo e per molto altro ancora che si è imposto con la forza del dogma il principio della superiorità dei comunisti e postcomunisti: «Vinciamo perché siamo i migliori, i più bravi a governare. Che ci possiamo fare?». «Appunto, un mito» fa il guastafeste Stefano Zamagni, docente di economia all’Università di Bologna: «Questa è una realtà dove anche un brocco fa bella figura. È la società civile che fa bravi i dirigenti. Qui non ci sono scandali, denunce. Pensa che siano santi?» chiede: «Suvvia. Qui la società civile si autoconvoca, si organizza. I politici sanno che prima ancora che con la Procura, se la devono vedere con la gente. Così sulle consulenze al Comune di Bologna è scoppiato il casino...».
Eppure qualcosa non va. Negli ultimi dieci anni, dal ’96 al 2005, i Ds in queste quattro regioni hanno perso il 24 per cento degli iscritti (contro una media nazionale del 18). Si procede per forza di inerzia, e se non c'è stata finora un’alternativa a questo blocco di potere forse più che altro è perché manca un competitor, come dicono gli esperti, che ci creda. Quanto all’efficienza e al tradizionale buongoverno della sinistra, basta aggirarsi tra le amministrazioni e si trovano parecchie sorprese.
2. continua
pierangelo.

maurizio@fastwebnet.it

Commenti