L’eroico bersagliere che prese in tempo il treno della Storia

È come sempre tra i primi a balzare dalla trincea. Ordinando l’attacco, il maggiore Razzini, comandante del Terzo bersaglieri, aveva fissato l’obiettivo di superare la linea nemica e raggiungere quota 85, sovrastante Redipuglia. Percorsi 50 metri, il Nostro è colpito. Cade a terra nel punto più desolato del Carso, ma continua a lanciare bombe a mano verso gli austriaci. Un’altra pallottola lo raggiunge, questa volta al petto. Ora, rischia di diventare un colabrodo. Se ne infischia e resta allo scoperto. Qualcuno però gli afferra un piede e lo tira indietro. Si volta e riconosce Federico Piferi, un vecchio amico dei tempi di Roma e anche lui atleta della Sportiva Audace. Il commilitone cerca di trascinarlo al riparo dietro una roccia. Il Nostro scalcia e si libera dalla presa. Ha deciso di combattere fino all’ultimo e non vuole intralci. Ha ancora un’arma da lanciare e, per farlo, solleva il busto da terra. Adesso è un bersaglio facilissimo. Fra un istante potrebbe essere colpito a morte. Ma mentre punta l’arma, ha la strana sensazione che il tempo si fermi. I suoi 35 anni di vita cominciano a scorrergli davanti come il sangue dalle ferite. I rumori della battaglia spariscono e si riaffaccia il passato.
Non era mai stato uno stinco di santo. Aveva fatto disperare i bravi genitori, popolani romani del rione San Giovanni. Di andare a scuola, neanche a parlarne. Era stato anzi riacciuffato mentre si aggregava a degli zingari per darsi al vagabondaggio. Poi, finalmente, il padre riuscì a imbarcarlo come mozzo nella Marina militare. Aveva 14 anni, allora. Restò in servizio 11 anni e fu un esperienza salutare. Navigando col piccolo cabotaggio imparò il mestiere di elettricista. Passò poi sulla Emanuele Filiberto, una nave da guerra, e girò il Mediterraneo. Nelle ore libere, che erano molte, recuperò il tempo perduto. Si dette alle letture e al disegno. Divenne eccellente caricaturista e pittore. Avrebbe potuto viverci, ma lì per lì non ci pensò. Venticinquenne dette le dimissioni dalla Marina e, grazie al babbo ferroviere, cominciò il tirocinio di macchinista di locomotive. Pochi mesi dopo, in quel maledetto 2 marzo del 1908, fu travolto da un vagone per l’imperizia di un compagno di lavoro. Ormai malandato nel fisico, fu costretto a lasciare le Ferrovie. Con una piccola pensione, avviò una modesta industria di giocattoli abbastanza redditizia. L’esuberanza ne aveva già fatto un personaggio di San Giovanni e divenne ancora più popolare quando assunse nell’aziendina i ragazzi sbandati del rione.
Ma la vita quieta non faceva per lui. Prima dell’incidente era stato un ciclista coi fiocchi. Percorreva in su e in giù i colli romani, inanellando primati. Decise di ricominciare e si costruì da sé una bici adatta alla sua nuova condizione di invalido. Tornò in forma magnificamente, al punto da decidere di fare il giro d’Europa sulle due ruote. Volgeva l’autunno del 1911 e l’Italia era concentrata sulla spedizione in Libia cominciata in quei giorni. Ma egualmente una folla entusiasta assistette alla partenza. Le gazzette mostrarono la foto del ciclista inguainato dalla testa ai piedi in una tuta da Batman, gli occhiali da palombaro sulla fronte e il fisico snello chinato sul manubrio ricurvo.
Il ferito rivedeva nitidamente i flash del suo passato, incurante del sangue che gli usciva dal petto e delle pallottole che gli fischiavano attorno.
Il giro d’Europa durò un anno. Percorse Francia, Belgio, Olanda, Germania, Danimarca, Norvegia. In Svezia si fermò un mese per la neve. Si mantenne dando lezioni di italiano e facendo caricature nei ristoranti. Giunse poi al Circolo polare e visse qualche tempo con gli esquimesi della Lapponia. Toccate Pietroburgo e Mosca, tornò a Roma attraverso la regione dei Turcomanni, la Polonia e l’Austria. L’anno dopo fece in bici il giro dell’Egitto e del Sudan, costeggiando il Nilo. Stava per inoltrarsi nell’Africa nera, quando le autorità inglesi lo bloccarono perché non poteva pagarsi una scorta adeguata alla pericolosità dei luoghi. Infatti, era stato derubato del suo denaro. Per racimolare i soldi del ritorno, il ciclista si esibì nei teatri francesi d’Egitto in travestimenti istantanei alla Frègoli. L’attrazione consisteva nel contrasto tra l’handicap fisico dell’attore e la destrezza con cui lo superava.
Poco dopo il suo rientro, l’Italia entrò nella Grande Guerra. Il trentaquattrenne fece carte false per partecipare. Tre volte la sua domanda fu respinta, finché riuscì a parlare col Duca d’Aosta. Asfissiato dalle insistenze, il Duca lo spedì dal maggiore Razzini. «In trincea no, figliolo», dichiarò l’ufficiale e, per convincerlo che la sua pretesa era assurda, lo sfidò: «Lei saprebbe fare un salto in lungo?». «Tre metri vanno bene?», replicò l’altro e fece il balzo. L'ebbe vinta.
Ma ecco, il tempo ha ripreso la corsa e riprendono gli spari.

È il 6 agosto 1916 e il Nostro, a terra sanguinante, fa un ultimo sforzo. La sua arma vola alta nell’aria verso il nemico, mentre una pallottola corre rasente verso di lui e gli buca la fronte. L’uomo è morto. Nasce la leggenda dell’eroe.
Chi era?

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