L’esordio con «Hard ground»

Eggià, poeti si nasce e lui, modestamente, lo nacque. E non se ne è accorto solo adesso che pubblica, proprio lui Tom Waits fresco di sessantunesimo compleanno, le sue poesie. Lo sa da un pezzo, visto che già nel 1975 disse che «la poesia è un mondo molto pericoloso» e perciò mica gli andava l’idea di «essere marchiato come poeta piuttosto che musicista». Difatti ha fatto tutto il resto: cantante, musicista, compositore, attore, insomma visionario.
Adesso basta. Esce Hard ground, che significa «suolo duro» e spiega con un’immagine di cosa parla: dei disgraziati che lì ci dormono, i barboni, gli alcolizzati, i senzatetto e senza pure il resto. Direte: dov’è la novità. Non c’è: questi sono i temi che gli piacciono, talvolta persino grotteschi tanto carichi di pastello, comunque questi. Tom Waits è un poeta a geometria variabile. Quando scrive versi per musicarli, diventano canzoni e lo sappiamo sin dal ’73 del complicato Closing time. Ora che ha scelto di stamparli (Hard ground uscirà a marzo per edizioni University of Texas Press, su www.utexas.edu/utpress si può già prenotare con un bel po’ di sconto) li accompagna, anzi li spiega quasi fossero didascalie, grazie ai ritratti di un gigante della fotografia, nientemeno che Michael O’Brien, un dio per chiunque guardi il mondo attraverso l’obiettivo e un professionista che da trentacinque anni lavora per National Geographic, Esquire e Life.
Facce strapazzate come quella in copertina.
Alienate eppure sempre qui, sull’hard ground, spalmate su di un destino schifoso e magari nobile, atemporali perché identiche a quelle di cinquant’anni fa oppure cento o di più, tutte con tante tragedie quanti fili della barba, scappate dal bordello della vita forse perché stanche di pagare marchette, oppure con le tasche vuote dopo averne pagate troppe. Tom Waits è questo, il monocolo attraverso il quale si vede questa disperazione, la disperazione della straordinarietà non invidiabile più che quella della normalità (purtroppo talvolta invidiata) alla American beauty o cose così. Fosse stato sulla strada della California con la famiglia Joad, lui ne avrebbe raccontato il fango vizioso che l’enorme Steinbeck ha tenuto fuori da Furore. Fosse stato vagabondo per gli States con Woody Guthrie, lo avrebbe accompagnato a casa anche da ubriaco pur di non fargli vedere gli squarci nichilisti che sarebbero piaciuti alla prosa spontanea di Kerouac. Perciò talvolta, a Tom Waits, la musica non basta perché non la condisce di protesta alla Pete Seeger né trasforma i profughi in fantasmi, come ha fatto Bruce Springsteen con The ghost of Tom Joad, pur di limarne via «il sangue e la merda» che sono il dna della perdizione. E allora ecco le poesie prossime venture, sulle quali c’è ancora il più misterioso dei veli, e che saranno il distillato di una foga creativa così aspra che è un mistero come piaccia a tanta gente. Per ora i critici americani di Hard ground hanno parlato benissimo, come John Loengard, che è uno dei «cento fotografi più importanti del mondo», e lo ha bollato come «raro e pieno di suggestioni». O come Mary Ellen Mark, fotografa e autrice di sedici libri, che lo ha benedetto addirittura come «catalizzatore di cambiamenti sociali». Oddio, forse un tantino esagerato. Però, vedete, nessuno accenna alle poesie. Mistero.
In fondo il bello di Tom Waits è che non c’è quasi mai nulla da scoprire se non l’armonia. Se ne sta, quando può, a Sonoma County in California, con la salvifica moglie Kathleen Brennan e i loro tre figli, isolato per di più, tanto che gli importa: la disperazione, persino quand’è grottesca ed emarginata, è qualcosa che si percepisce anche stando lontano, persino dormendo su di un soft ground con una borghesissima famigliola, purché si tengano le orecchie dell’animo sempre accese. «Non ho tempo per i ragazzi giù all’angolo/ per fare casino con loro per strada/ non ho voglia di andare con le puttane dell’ottava strada/ perché stanotte ho intenzione di restare con te»: è la sua strafamosa Jersey girl, fatta e rifatta pure da Springsteen, forse un piccolo manifesto d’intenti di che cosa si leggerà in Hard ground, magari rabbrividendo.

Intanto sarà, questo, un anno grande così per lui: tra poche settimane entrerà nella Hall of Fame con Neil Diamond e Alice Cooper e, quando ne ha voglia, lavora al nuovo disco, il primo di inediti dopo quasi cinque anni perché, tra tutti i suoi talenti, il più grande è quello di togliere l’ansia alla propria ispirazione e quando c’è, c’è. Altrimenti pazienza.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica