L’eterna sfida tra l’angelo virtuoso e il demone Liszt

Ammoniva Honoré de Balzac: devi giudicare Liszt una volta che hai avuto l’opportunità di ascoltare Chopin. «L’Ungherese è un demone; il Polacco un angelo». Lo scrittore aveva frequentato e ben conosciuto entrambi, e li dipinge come i Dioscuri del pianoforte, figli del Giove Ottimo Massimo del virtuosismo, Paganini. Nel romanzo il Cugino Pons, Balzac immagina un’esecuzione perfetta, dove il solista trova «temi sublimi nei quali ricamò capricci, qualche volta con la perfezione e l’afflizione raffaellesca di Chopin, qualche altra con il fuoco e la magniloquenza dantesca di Liszt, i due approcci più vicini a Paganini. L’esecuzione, raggiunto questo grado di perfezione, pone l’esecutore al livello del poeta; egli sta al compositore come l’attore all’autore, un traduttore divino di cose divine».
Sull’amicizia fra i due artisti sono corsi fiumi d’inchiostro. Sicuramente ci fu una profonda ammirazione di Liszt per la musica di Chopin. Una leggenda riferisce che in un salotto elegante l’Ungherese fece spegnere tutte le candele. Il pubblico, convinto di ascoltare il Polacco, applaudì invece Liszt che si era sostituito per dimostrare di poter suonare come il collega. Ma come suonava Chopin, il profeta del pianismo intimo, celebre per la sua irritabilità nervosa che conduceva a esiti sublimi?
Liszt ricorda una visita domenicale, circa il 1841. Trova Chopin spossato dall’aver scritto il Notturno in sol maggiore (op. 37, n. 2), ma ciò che lo colpisce è l’esecuzione rivelatrice di altre composizioni. «Specialmente meraviglioso era il Preludio in fa diesis minore, op. 28, n. 10 (di cui si ricorderà nel suo Au bord d’une source e che farà oggetto di un seminario intero a Weimar nel 1884), un lavoro irto di difficoltà esecutive, che tesseva sotto le sue dita, ogni tanto sciogliendo una lamentosa melodia, che poi veniva completamente assorbita da arabeschi meravigliosi e progressioni cromatiche. Era così incantevole che accondiscese alla mia ardente supplica, e lo suonò due volte. Ogni volta sembrava più bello, e ogni volta lo suonava in modo più estasiante. (...) Il suono, sebbene piccolo, era assolutamente esente da qualsiasi critica, e nonostante la sua esecuzione non fosse impetuosa, in nessun caso adatta alla sala da concerto, tuttavia era perfetta all’estremo». Sfortunatamente, quasi nessuno, se non Chopin stesso poteva suonare la sua musica e dargli, come scriveva Berlioz, «quel senso di inatteso, che è una delle sue principali bellezze». Il suo modo di suonare era un succedersi di «centinaia di sfumature di movimento delle quali lui solo conosceva il segreto, impossibili da fermare sulla carta». E nei Memoires Berlioz fa un’osservazione da direttore d’orchestra: «Chopin era impaziente nelle costrizioni del metro; a mio avviso spingeva troppo l’indipendenza ritmica. Chopin non poteva suonare a tempo». Il suo modo di suonare ad libitum ha degenerato negli imitatori in semplice mancanza di ritmo o in stucchevoli «rubati». Tre anni dopo la sua morte, Liszt, scrisse uno dei primi studi consacrati al Gran Polacco. Anticipava quello che oggi è dominio pubblico: nessuna opera di Chopin si può trascurare o riporre nel cassetto. In Chopin, scrive Liszt, non dobbiamo fermarci alla bravura dissimulata sotto tanta seduzione: «A lui dobbiamo l’estensione degli accordi, sia simultanei, sia arpeggiati, sia spezzati; quelle sinuosità cromatiche ed enarmoniche di cui le sue pagine offrono esempi così convincenti; quei piccoli gruppi di note surajoutées che cadono come goccioline di una rugiada screziata sopra l’andamento della figura melodica». Una tradizione, quella dell’ornamentazione, che risaliva alla grande scuola di canto italiana, agli ammirati Giovan Battista Rubini, Giuditta Pasta, Luigi Lablache. Anche quando esprime il cordoglio Chopin «non grida, non gemiti rauchi, non empie bestemmie, non furiose imprecazioni turbano per un istante il compianto, tal che potrebbe intendersi un respiro serafico», ci avverte Liszt. Accanto al controllo e al desiderio della pace, espresso dal canto, scoppiano, come negli Scherzi e negli Improvvisi, collere sorde e rabbie soffocate, «e parecchi suoi studi, ci dipingono un’esasperazione concentrata e dominata da una disperazione a volte ironica, a volte altezzosa».
Il miracolo Chopin si ripete da due secoli.

Nessuno sfugge al confronto con la sua musica. Alla fine di ogni brano è come se si spezzasse un incantesimo. Quando suonava, Chopin aveva l’abitudine di chiudere glissando con un dito sul pianoforte. Era come uscisse di forza dal suo sogno.

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