L’Europa guardi ai mercati del Sudamerica

L’Europa guardi ai mercati del Sudamerica

Federico Guiglia

L'annuncio che anche il Venezuela entrerà a far parte del Mercosur, l’area di libero scambio nata nel ’91 fra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, ha almeno due risvolti: uno latino-americano e un altro, per noi più diretto, italiano. Il primo effetto è che l’America che non ha trovato l’America forse potrà trovare l'Unione europea. Non solo e non tanto come possibile interlocutore, essendosi la vecchia Europa da tempo disinteressata della sorte (anche) di quella giovane parte del mondo, quanto soprattutto come modello istituzionale. Con l’arrivo del Venezuela il prossimo dicembre, il Mercosur potrà finalmente tentare il salto da pura zona di commerci a entità almeno para-politica. Una specie di mini-Unione europea dell’America latina, alla quale già guardano il Cile e la Bolivia ma pure il ben più lontano Messico. Insomma, l’opportunità di diventare qualcosa di duraturo e permanente che non si occupi soltanto di vendere prodotti fra sé e sé, ma di competere ad armi un po’ più pari coi mercati mondiali dell’Europa, dell’America del Nord e della Cina prorompente. Chissà che all’America latina si possa finalmente guardare senza più domandarsi quanto populismo c’è o non c’è nei singoli governi dei Paesi. Paesi che, peraltro, hanno tutti o quasi - e ogni riferimento alla povera Cuba è voluto; ma la povera Cuba è fuori dal Mercosur -, un sistema di democrazia se non consolidata almeno irreversibile. La libertà ha potuto più dell’ideologia, e scusate se è poco in un Continente che s’infiamma anche e soltanto per una partita di calcio.
Ma la conseguenza numero due dell’ampliamento da quattro a cinque del Mercosur riguarda in particolare il nostro Paese. Per la prima volta nella storia d’America latina tutti gli Stati che hanno accolto e valorizzato l’emigrazione italiana si trovano seduti attorno allo stesso tavolo politico-istituzionale. Fra Brasile, Argentina, Uruguay e ora Venezuela si contano più di quaranta milioni di cittadini discendenti da italiani. Uno su due in Argentina e in Uruguay, uno su sei fra Brasile e Venezuela. Ma più della quantità, peraltro già significativa, conta la qualità di quella presenza. Si pensi che nel solo e piccolo Uruguay la maggior parte della squadra di governo è d’origine italiana, e tre ministri lo sono anche di passaporto.
L’ampliamento del Mercosur è, dunque, l’ultimo campanello per la Repubblica italiana che solo negli ultimi dieci anni, ad allargarci un po’, ha riscoperto il ruolo che potrebbe avere in America latina. Se solo si decidesse a esercitarlo! Perché non dar vita proprio con i Paesi del Mercosur, ché più ci “somigliano”, a un vertice italo-latino-americano esattamente come fa la Spagna con la cumbre ibero-americana da oltre vent’anni? Perché non cogliere questa novità da Caracas a Montevideo per promuovere un unico e grande programma di diffusione della lingua italiana? Tra l’altro, sono tutti Paesi pieni di scuole e di corsi in italiano: basterebbe una lungimirante azione di coordinamento. Perché non investire e persino “delocalizzare” nelle nazioni del Mercosur, estendendo la politica delle imprese e del made in Italy almeno anche al Cile, Paese-osservatore dell’istituzione e allo stesso tempo dell’Italia a cui da sempre si sente vicino?
Proprio ieri si è aperta a Milano la seconda conferenza che la Regione Lombardia col patrocino della Farnesina, della Camera di Commercio, dell’Istituto Italo-latino-americano e altri enti e ministeri dedicheranno all’America latina. Un’occasione, si spera, perché l’intero “sistema Italia” riscopra l’America che “parla” italiano.
f.

guiglia@tiscali.it

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