L’IDEOLOGO GUALTIERI

RomaRoberto Gualtieri, vicedirettore della Fondazione Gramsci, storico e membro della direzione Pd, è considerato uno degli «ideologi» dell’area dalemiana. E non ha mai risparmiato critiche alla linea di Walter Veltroni.
Professor Gualtieri, il Pd sembra una babele più che un partito: dalemiani contro veltroniani, ex Ppi contro ex Ds, Nord contro Centro...
«C’è un evidente problema di capacità di sintesi da parte della leadership, che non riesce a tenere insieme le diverse anime attorno a un progetto. Il gruppo dirigente Pd ha evitato un’analisi seria della sconfitta elettorale, ha scelto di emarginare una parte della maggioranza interna, e lancia accuse di complotti e aggressioni al segretario. Veltroni però dovrebbe dirci se intende essere il segretario di tutti o solo un capocorrente. C’è una complessiva fragilità politica, e la si giustifica dando la colpa ai “complottatori” interni invece che riflettendo sugli errori».
L’alleanza con Di Pietro è uno degli errori?
«Gli abbiamo consentito di massimizzare il suo risultato, regalandogli una sovra-rappresentazione in Parlamento. E nella storia della Vigilanza l’asse di ferro con Di Pietro ci ha portato allo schiaffo dell’elezione di Villari».
Sulla vicenda Vigilanza lei ha denunciato addirittura un clima «stalinista» nel partito. Siamo a questo?
«Sulla Vigilanza abbiamo fatto una bella frittata e invece di riflettere sul pasticcio combinato e trovare una via d’uscita, si è preferito lanciare accuse di intelligenza col nemico e di complotto dalemiano. L’aggressione subita da Latorre ne è un esempio».
Cosa rimprovera a Veltroni?
«Vorrei premettere che trovo fuori luogo questa assoluta centralità data alla questione Rai: come ordine di priorità per un partito mi pare un po’ strano, mentre sono in ballo questioni ben più importanti, dal federalismo fiscale alla crisi economica. Detto ciò, è stato sbagliato pensare di poter imporre l’elezione di un candidato su cui non c’era quel minimo di consenso necessario. Serviva più duttilità e fantasia, lo sforzo di individuare una figura autorevole (come si è fatto con Zavoli, ma fuori tempo massimo) che rendesse difficile al Pdl dire di no, com’è stato da parte loro sulla Consulta».
Ora come se ne esce?
«Mi pare che sospettosità e paura dei complotti abbia reso poco lucidi nella gestione della faccenda. Se uno si asserraglia in una banca con degli ostaggi non gli si dice: “Esci subito che ti ammazzo”. Si cerca di trattare, no?».
Che pensa delle ipotesi di Pd del Nord?
«È un ennesimo sintomo preoccupante di fragilità politica. Se non ci si sbriga a dare un fondamento politico comune a questo partito, prevalgono le spinte centrifughe. Per fortuna in questo caso non si può certo dare la colpa a D’Alema. Ma in una situazione di scarsa chiarezza politica e di mancanza di un progetto comune, su ogni problema si rischia un trauma: vedi la questione del Pse e della collocazione internazionale. O le oscillazioni nella linea di opposizione, sempre in bilico tra demonizzazione e accordi fumosi.

O la confusione sulle alleanze: invece di oscillare tra tentazioni bipartitiche che farebbero del Pd un cartello elettorale e la riproposizione di un modello frontista (alla fine due facce della stessa medaglia), occorre impostare le alleanze intorno a un chiaro profilo riformista del Pd».
Al Pd serve un congresso in cui contarsi?
«Se al gruppo dirigente manca la capacità di fare chiarezza sulla linea e superare le tensioni tra le diverse anime, il congresso diventa inevitabile».

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