L’impresa di Fiume: ma quanto era libertario il regno di D'Annunzio?

L’impresa di Fiume: ma quanto era libertario il regno di D'Annunzio?

«Ah, se fossi morto a Fiume...». Quante volte questo pensiero deve aver attraversato la mente di Gabriele d’Annunzio, murato vivo al Vittoriale a contemplare l’osceno crepuscolo di sé stesso. Quante volte, fra un biglietto firmato «Frate gentile», «Fratel Gabriel priore indegno», «Piccolo seguace di Sant’Antonio», propedeutici tutti a notti di lussuria, una richiesta economica al Duce del Fascismo, un messaggio ai legionari in partenza per l’Africa, una comunicazione di servizio al gioielliere Buccellati, l’idea di essere un sopravvissuto in quell’Europa degli anni Trenta che, pure, avrebbe potuto essere sua terra d’elezione, deve averlo toccato. Fiume era stata per lui l’ultima illusione di fermare il tempo, la possibilità di essere signore e padrone di un regno vero eppure fantastico: il prodigio incarnato di leggi e di pietre, di eroismi e di fiori, di arte e di amore. Aveva 56 anni, era già nell'età in cui «non suonano per me se non gli addii, se non i commiati, se non le separazioni, se non le rinunce, se non le condanne. Ho sognato che ripiegavo la mia carne come un mantello senza colore». L’«esosa vecchiezza» celebrata da allora in poi nel mausoleo di Gardone, suo cilicio e sua tomba, gli detterà un ultimo epitaffio: «Ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla».
A novant’anni da quell’impresa, l’editore Castelvecchi ripropone all’attenzione degli studiosi e dei semplici lettori la Costituzione della Reggenza italiana del Carnaro che d’Annunzio scrisse rielaborando la bozza d’insieme preparatagli da Alceste de Ambris, sindacalista rivoluzionario e mazziniano (La Carta del Carnaro e altri scritti su Fiume, pagg. 168, euro 16). Lo fa affidandola alla cura esemplare di Marco Fressura e Patrick Karlsen e premettendogli uno scritto altrettanto esemplare di Giordano Bruno Guerri che ne sottolinea «l’apertura democratica e l’avanzata spregiudicatezza di molti suoi assunti centrali, che oggi definiremmo libertari. La parità dei sessi veniva stabilita come dogma inderogabile, ogni cittadino era elettore ed eleggibile a partire dai vent’anni. I Comuni godevano di grande autonomia e nelle scuole tutte le etnie avevano diritto all’insegnamento nella propria lingua, riconosciuta dallo Stato». Ancora: si faceva «divieto di qualsiasi insegnamento religioso e politico nelle scuole, la libertà era estesa ad ogni forma del comportamento umano, a partire dal pensiero e dalle credenze religiose, veniva garantita l’assistenza sociale per malattia, invalidità, disoccupazione, vecchiaia», il diritto di proprietà veniva vincolato alla sua utilità sociale, i lavoratori inseriti in un sistema corporativo «che doveva porre fine al dissidio padroni-oppressori e proletari-vittime del mondo capitalistico». A un collegio di architetti e urbanisti veniva affidato «il compito di curare la salubrità delle case, difendere il paesaggio e le bellezze urbanistiche», la musica era «un’istituzione religiosa e sociale», il lavoro «una fatica senza fatica» che «tende alla bellezza e onora il mondo». Era il 1920 e par di sognare.
Qualche anno fa il saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione (il Mulino), che giustamente Giordano Bruno Guerri richiama nella sua introduzione come punto di partenza di una nuova storiografia più attenta a sottolineare gli elementi libertari di quell’impresa che non il suo essere stata l’apripista della marcia su Roma e del Fascismo, ha fatto del fenomeno fiumano il paradigma di un’occupazione appunto come «festa», di una rivoluzione come epifania di un nuovo mondo, di un modello comportamentale in grado di sfidare il tempo e riproporsi, come un fiume carsico, negli anni a seguire, ora interrandosi, ora di nuovo balzando in superficie.
Fiume e il «fiumanesimo» sono stati insomma il leitmotiv, spesso inconscio, spesso inconfessato, che fa da sottofondo a tutte le successive rivolte e/o rivoluzioni intellettuali che poi seguiranno: dai figli dei fiori alla contestazione studentesca del maggio ’68, dagli hippies agli indiani metropolitani, dalle comuni ai centri sociali ai movimenti no global. Mischiati vi troviamo tutti quelli che ne furono gli elementi principali: la politica come rappresentazione scenica, la satira e l’ironia come arma, la ricerca di nuove alimentazioni, nuove mode di vestiario, nuove tecniche di conoscenza, l’ambientalismo, l’idea di un’economia alternativa, il rifiuto della morale e delle istituzioni borghesi, l’esasperazione della condizione giovanile, l’idea di una nuova alleanza fra Paesi poveri e/o in via di sviluppo. Il secolo della modernità e delle masse trova qui per la prima volta chi ne avverte la pericolosità e cerca di ridare loro un senso. Intravede nella prima la tendenza a trasformarsi da strumento in feticcio, nella seconda la tirannia della maggioranza, il peso schiacciante del numero.
In un libro bellissimo, Le mie stagioni, Giovanni Comisso, che da giovane era arrivato a Fiume direttamente dalle trincee di una guerra finita e già diventata routine militare, riepilogherà, vent’anni dopo, alcune coordinate di quell’esperienza: «Godere dello spirito, credere nella propria individualità, essere certi che le macchine non accrescono il tempo, ma ogni attimo se profondamente vissuto è vasto come una vita, ridurre al minimo le nostre esigenze materiali, disprezzare il denaro, il lusso, generatori di stupidità». In una frase che ha l’andatura di un verso trova il modo di racchiudere il senso di un’avventura e un’esperienza: «Questa città era stupenda, la mia giovinezza era al massimo, l’estate declinava lentamente con tramonti sfolgoranti sul mare».


Perché poi Fiume fu anche questo, fu soprattutto questo: la vacanza dalla storia e dalla politica, l’idea di poter fermare il tempo, di dilatarlo in modo che non ci fosse né passato né futuro, ma un unico immobile presente, senza fretta e senza l’ansia di sentirti sul collo il rantolo di ciò che era stato, né sul volto il soffio di ciò che poteva essere. Semplicemente immersi nella vita, lasciandosela scorrere addosso, nudi e benedetti dal sole, a cavalcioni di una balaustra come se si fosse sulla terrazza del mondo. Ah, se d’Annunzio fosse morto a Fiume...

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