nostro inviato a Brembate Sopra
Non è vero che la vita va avanti: ogni tanto la vita si ferma, per fortuna. In questo paese brutto di gente bella, dove hanno cementificato tutto fuorché l’anima, il cuore della vita civile non ha più battiti da sabato sera. Ferma la sfilata di carnevale, ferma la giostra in piazza, ferme le partite di calcio, ferme le gare di ginnastica. Il paese è come un grande sudario, in onore della sua piccola martire, presa nel fiore degli anni. Lo sguardo spento e stanco, il signorotto con i capelli brizzolati e i baffoni cenere spiega a suo modo la situazione: «Il paese è morto».
Morta dentro, per sempre, è la mamma di Yara, costretta ad affrontare il passaggio più infame di una vita intera: il viaggio a Milano per riconoscere la sua creatura. Prima di partire, una lunga telefonata con la suora che dirige la scuola di Yara, preside e amica. Al ritorno dalla via crucis milanese, il pianto insostenibile e infinito nel chiuso della propria casa. Per il mondo esterno, solo una pietosa preghiera: basta fiori e biglietti sul cancello di casa. Un modo per allontanare dai fratellini di Yara l’incubo della tragedia, almeno visivamente. Il sindaco Diego Locatelli, che riesce ad avvicinare la famiglia, ha la desolazione nella voce: «Sono molto provati, adesso vorrebbero chiudersi nel dolore e elaborare da soli questa disgrazia. Per loro quel momento è stato davvero molto pesante…».
Tutto è mesto e spento, nel grigiore invernale di questo paesotto anonimo, che nessuno conosceva e che da tre mesi è capitale del dispiacere. Poi si sa come gira il mondo: dopo il collasso, riprenderà faticosamente il moto perpetuo dell’esistenza, con le sue inerzie e le sue incombenze. Già nelle prossime ore, quando le gelide ritualità dell’inchiesta libereranno la povera salma, bisognerà pensare al funerale con il vescovo. E già stamattina, subito, bisognerà spiegare questa morte cupa e tenebrosa alle compagne di scuola, che hanno sempre lasciato vuoto il banco nella 3a C dell’Istituto Sacramentine, a Bergamo: convinte fino a sabato mattina che prima o poi Yara l’avrebbe rioccupato, dopo un week-end di tempesta dovranno improvvisamente accettare che Yara non lo occuperà più. È già previsto l’intervento degli psicologi, mai come stavolta utili alla causa di un’età delicatissima…
Soltanto le campane di don Corinno, incessanti e coraggiose, continuano imperterrite a suonare note allegre. Il parroco l’aveva detto subito: nessun rintocco funebre, dobbiamo credere a tutti i costi che Yara ormai viva come un angelo nella beatitudine celeste, tra mani divine, lontana dalle mani sudicie di chi l’ha uccisa. Questo non toglie però che quaggiù, in questa valle di lacrime e di meschinità umane, qualcosa di nero e di pesante incomba sull’anima. Come un tarlo letale, come un incubo strisciante. È lo stesso parroco a definirlo compiutamente nella messa delle dieci: «Adesso sappiamo cosa è un orco. E siamo preoccupati perché l’orco è tra noi».
È la grande, opprimente eredità di questa morte così brutta. Tutti i giorni, ovunque, muoiono purtroppo ragazzini d’ogni età: di malattia, sotto le auto, persino di stenti. In qualche modo, i lutti vengono subìti come spietate regole del gioco. Ma questa morte è più morte di tutte, perché la società degli uomini non può accettare che qualcuno arrivi a tali punti di barbarie. Si sente dire di coltellate e di violenze feroci. Brembate ora sa di avere un individuo simile, un demonio spietato, un «orco» vero e reale, sull’uscio di casa. Perché questa è l’idea generale: l’assassino conosce troppo bene i luoghi e i tempi, perché ancora si possa pensare arrivi da chissà dove, così per caso. Dice l’edicolante Giuseppe, che ha il chiosco proprio davanti alla palestra della sparizione: «Ci penso da tre mesi: qui, nel piazzale alle mie spalle, si è consumato tutto. La storia è così strana, così cattiva. Però non credo ci siano dubbi: chiunque sia, il farabutto è di qui. Gli spostamenti dimostrano che conosce i posti. Spero lo prendano presto, quell’animale».
Sono in ansia le mamme, sono preoccupati i papà, ovviamente hanno paura i bambini. C’è in giro, libero e inafferrabile, un uomo capace delle peggiori atrocità. «Non mi vergogno a dirlo - confessa la signora Lucia, davanti all’oratorio don Bosco -: fino a quando non lo prenderanno, non lascerò più uscire mia figlia da sola…».
È lo stesso vescovo Francesco Beschi a interpretare il senso di smarrimento e di timore del suo popolo: «Questi non sono gesti del destino, ma di un uomo. Non dobbiamo alimentare il sentimento della vendetta, ma viviamo un momento oscuro…».
Ciascuno poi ha le sue modalità per uscire dalle tenebre. Il cosiddetto popolo di Internet, assieme al dolore, esprime molte ricette infallibili: datelo a noi, torniamo alla pena di morte, bisogna impiccarlo. Se davvero fosse questa la civiltà dei tempi moderni, dovremmo almeno chiederci quanti passi abbiamo fatto in avanti, dal Medio Evo in poi. Ma fortunatamente l’umanità di oggi è ancora varia: c’è una cocciuta riserva di anime che si ostina a frenare le pulsioni e a difendere valori più alti. Per ritrovarla basta spegnere il computer grondante vendetta, cappio, sedia elettrica, e sfogliare semplicemente il libro di carta che sta in chiesa, messo lì per raccogliere pensieri scritti a biro, come usava prima di facebook e di twitter. Sopra, dall’altra sera, tulipani bianchi e un biglietto: «Per Yara, un angelo di Dio». Ora dopo ora, si aggiungono i messaggi. Ma persino qui, anche se in modo meno truce, riaffiora l’incubo di un orco indefinibile, eppure vicinissimo: «Bellissimo fiore, purtroppo al mondo esistono persone cattive, prive di ogni scrupolo, ciao, Alessandro B.».
Qui Brembate, borgo di lutto e di incubi.
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