L’inedito Un racconto di Tonino Guerra

di Tonino Guerra
O gni tanto mi spingo mentalmente a nascondermi in luoghi segreti e miserabili, una forma di falso suicidio per un dispetto a qualcuno o magari una punizione a me stesso. Mi capita spesso questa fuga dalla realtà, per vivere in un esilio sperduto e sofferto soltanto nell’immaginazione. Ultimamente ho usato per le mie fughe mentali un palazzone squallido alla periferia di Mosca non lontano dai laghi di Kosino. Lo vidi quando ancora era abitato da una vecchia attrice georgiana. Due camere gonfie di cuscini e con tanti specchi alle pareti per aumentare la presenza di se stessa e così tenersi compagnia nella solitudine dei suoi ultimi anni di vita. Quando mi hanno detto che era morta, quell’appartamento è diventato il rifugio dei miei viaggi. E naturalmente capito nel quartiere quasi fossi un forestiero misterioso. Ripeto percorsi che ho già fatto realmente anni fa in compagnia di mia moglie quando con Parajanov andavamo a trovare l’artista. Attraverso boschetti radi nel bianco della neve e incontro giovanotti che scivolando sugli sci portano a spasso i loro cani. Corvi che gracchiano fanno cadere polvere di neve dai rami. Una sera, tornando a casa, vedo nel vicolo stretto in fondo ai vetri del lungo negozio vuoto una figura d’uomo che mi pare di riconoscere. Cerco di raggiungerlo ma lui si gira per allontanarsi. La schiena con dei gonfiori che tolgono quasi completamente la struttura del collo mi dice in modo definitivo che si tratta di Fellini. Allora lo chiamo e lui si ferma senza girarsi. Così lo raggiungo ma nella paura di essermi sbagliato gli resto alle spalle.
«Non sei Federico?» chiedo. Allora si volta e mi abbraccia. «Che cosa fai a Mosca?» gli domando. «Giro un film.» «Quale?» Resta in silenzio e si tocca i pochi capelli sopra le orecchie. «Vedo che ti sono cresciuti» gli dico ricordando la sua lotta per fermare la caduta dei capelli. «Ho trovato un unguento cinese molto buono.» «Insomma stai bene e lavori.» «Ti ricordi quell’idea che avevamo prima della Nave va?». «I carabinieri.» «Sì la parata dei carabinieri a cavallo in alta uniforme finché succede il patatrac.» «Ma qui non ci sono i carabinieri.» «La risolvo con la parata dell’armata di Budyonny nel 1925 sulla piazza Rossa... Prima passano i cavalieri coi colbacchi alti che trascinano i tacianki, che sono carrette coi cannoncini, e subito dopo avanza tutta l’armata a cavallo in tante file di venti e con la divisa a righe rosse sul petto. Testa alta, forza negli occhi, cavalli allineati e saltellanti a ritmo uniforme. Li sta guardando il generale Budyonny che è sul cavallo persiano davanti alle tribune di legno cariche di spettatori entusiasti. Finché d’improvviso un cavallo scivola e precipita trascinando a terra il cavaliere e subito altri e altri e altri sono coinvolti nella caduta che diventa un groviglio totale di gambe, corpi, teste, bandiere, spade e nitriti per tutta la piazza Rossa. Una lotta inutile per una risistemazione impossibile. Deretani di cavalli che scuotono schiene di pelo sudato, escrementi che esplodono dai ventri compressi negli sforzi scomposti, cavalieri trascinate dalle briglie perdono brandelli di vestiario e soprattutto stivali. Urla, neve, copricapi che rotolano davanti al generale Budyonny. Si fa sera e sulla piazza continua la lotta disperata di uomini e cavalli per ritrovare l’equilibrio perduto. Alcuni fasci di luce piovono su questo mondo disperato e di tanto in tanto, colpiti da bagliori violenti, appaiono musi di animali infuriati e gambe di soldati attorcigliate ai finimenti. Ma ecco che in mezzo a tutta quella carne agitata appaiono frammenti di carne, teste di marmo di Stalin che rotolano, lettere di parole che formavano slogan comunisti sui palazzi, lapidi con falce e martello. Insomma tutti i simboli che hanno resistito fino a poco fa mescolati coi protagonisti di quella definitiva caduta. Sul cavallo bianco ora il generale Budyonny sta piangendo per questa infinita sconfitta.»
Federico smette di parlare e aspetta il commento. «Meraviglioso... anche se la tua denuncia mi sembra un po’ troppo scoperta...»
«La denuncia di che cosa? Io sono un saltimbanco e basta... Non dichiaro mai niente... Invento delle immagini...»
Resta in silenzio per scrivere qualcosa sulla polvere che copre il vetro del negozio: «Non dire a nessuno che mi hai incontrato».

Sul dorso della mano ho rivisto le tante lentiggini color tabacco che una volta abbiamo anche contato: erano una trentina. Si muove in silenzio sulle croste di ghiaccio e scompare girando all’angolo di un palazzo su cui piove una luce polverosa.

© 2012 Bompiani/RCS Libri S.p.A.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica