L’inganno del Caimano

Non l’ho visto e già mi piace. Gli odiatori di Nanni Moretti smettano di leggere perché non troveranno esercitazioni anticomuniste di maniera, qui: il suo cinema da queste parti può anche piacere (La stanza del figlio era piaciuto persino a Massimo Bertarelli) e anche Il Caimano finisce che lo guarderemo, prima o poi: magari poi, così da non sentirci gregge. Qui si pensa che su certe cose Moretti abbia persino ragione, che creda in quello che dice, e che, se dice per esempio che «un film non può orientare le scelte degli elettori» (sua lunga intervista di ieri, a Repubblica) in effetti sfiori l’ovvio: la più scarsa trasmissione televisiva di tarda serata fa più spettatori di quanto Il Caimano ne farà in sei mesi, figurarsi nel paio di settimane che ci separano dal voto.
Ma sono cose che si sanno. E c’è da credergli, a Moretti, anche quando dice che sin dal principio aveva previsto l’uscita del film nel marzo 2006, quando del voto neppure si sapeva: mentre, ecco, per quanto riguarda il suo non immaginare che il citato film avrebbe creato attenzione («C'è un clima un po’ sovraeccitato, non me lo aspettavo») Moretti può andare a scopare il mare, per usare un’espressione nordica: in questi periodi ogni petardo è una bomba atomica, e lo sappiamo noi, lo sa Moretti, lo sa il portinaio della palazzina di fronte. Moretti dice: «Rimandare l'uscita perché si vota mi sembra assurdo». Forse il rimandarla di sei mesi: nel suo caso bastavano quindici giorni, ma fa niente, non è così importante, Moretti resta credibile quando dice che di fare il propagandista gli interessa poco, e lo resta quando sostiene di aver fotografato l’Italia che vede: null’altra. È quella che vede lui, è indubbio: ed è un Paese in cui «la stragrande maggioranza dei cittadini ha già deciso da mesi per chi votare», ha ragione.
La purezza di Moretti, ciò che ne fa un archetipo del quale limitarsi ad ammettere l’esistenza, è tutta nelle sue micro-analisi del Berlusconi alias Caimano, è tutta in semplicismi che la sinistra pensante per buona parte ha già superato senza che lui forse neppure lo sappia, è nelle schematizzazioni datate, nella propaganda che lui non sa neppure essere propaganda: «Uno dei nostri problemi ­ dice - credo sia esserci abituati a cose incredibili, siamo assuefatti: per la quarta volta in dodici anni stiamo andando alle elezioni con un candidato premier che ha tre reti televisive e questo in un altro Paese democratico è impensabile». Siamo alla mancata elaborazione primaria, tanto che ai Moretti seguita a sfuggire che una piena democrazia è proprio l’autentico fattore che ha reso possibile l’elezione di Berlusconi: laddove, per il resto, aveva e ha tutto contro. Banche, confindustrie, sindacati, giornali, magistrature, artisti, scrittori, registi: i quali, sommati insieme, a quanto pare, non hanno dato l’intero Paese e neppure la metà più uno. Il disprezzo di Moretti per il genere umano (quello che vota) è paradossalmente il tratto che personalmente me lo rende più simpatico, ma è anche ciò che probabilmente gli impedisce di comprendere come Berlusconi, più che un pericolo per la democrazia, di essa sia viceversa la più eclatante e per alcuni insopportabile conseguenza.
Ma il considerare il volgo come una mera carne da macello elettorale, imbevuta del Grande Caimano, è tutta nel rifiuto morettiano di un voto che in Italia sia veramente libero: «È come se uno ­ dice a proposito di Berlusconi e di Mediaset - nei cento metri portasse il blocchetto di partenza venti metri più avanti». Sono tesi che ormai non portano avanti neppure più Antonio Tabucchi o Furio Colombo, sono argomenti già ampiamente contraddetti da responsi elettorali talvolta cari alla sinistra: e questa è purezza, è la politica alla sua fase adolescenziale, è un Paese non a caso ricondotto alle speranze dei movimenti: «Quando ho fatto politica con gli amici dei Girotondi ­ parole sue - mi sono rivolto anche all'elettorato di centrodestra». Con scarsi risultati, e come mai? Risposta: perché l’ha diviso e lacerato quel Caimano che «lascia dietro di sé macerie culturali, politiche, istituzionali, costituzionali, etiche e psicologiche». Nient’altro. «Questo è un Paese spezzato in due da troppi anni, venti anni fa un elettore democristiano e un comunista comunicavano». Chissà che cosa si dicevano. Il comunista, al democristiano, forse spiegava che la Dc corrispondeva alla mafia, che le stragi di Stato erano democristiane, che Moro l’aveva ammazzato Andreotti, che Pecorelli pure, che Feltrinelli l’avevano ammazzato servizi segreti democristiani, che Craxi era solo un ladro da prendere a monetine e comunque troppo legato alla Dc, e poi avanti ancora, ecco Berlusconi che è ancora mafia, misteri, televisioni, golpe antidemocratico. O forse non diceva questo, forse il comunista al democristiano diceva altre cose: anche perché altrimenti non avrebbero fatto il Compromesso storico, poi.

Le dicevano semmai, queste cose, queste cazzate pericolose che dividevano il Paese come lo dividono oggi, certi movimenti disseminati nelle strade e nelle piazze, certi girotondi ante-litteram, certi libri, certi artisti, certi registi, certi film.

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