D iamone pure annuncio, visto che la stampa americana, New York Times in testa, e diversi blog in tutte le lingue ne stanno decretando in anticipo il successo: è nato il «sostenismo», figlio di Michiel Schwarz, teorico della cultura (queste nuove specializzazioni intellettuali sono sempre più strane) e di Joost Elffers, designer.
I due hanno scritto un «manifesto culturale» dal titolo Il sostenismo è il nuovo modernismo (in uscita per D.A.P. - Ditributed Art Publishers, pagg. 240, dollari 24,95), dove propongono, anche attraverso particolari soluzioni grafiche, una serie di valori e regole per scrollarci di dosso definitivamente sia il modernismo che il postmoderno ed entrare così, con allegria, nellepoca del sostenismo.
Che non è lo stesso di sostenibilità. Questultima idea, un po come quella della decrescita serena, sembra aver fatto il proprio tempo (pare ieri, però, che la si prendeva come unica ancora di salvezza per evitare limplosione tecnica del genere umano). Il sostenismo è piuttosto una visione complessiva della vita e della cultura, un modo di pensare e immaginare, di usare le mani per produrre oggetti, di fare esperienze (anche e soprattutto di design) nonché di rendere queste esperienze accessibili agli altri. Una specie di filosofia vagamente new age, riveduta e corretta per i nostri tempi digitali, al fine di renderla più «cool» e meno «figlia dei fiori». Il libro di Schwarz e Elffers, in seconda battuta, è anche un buon Manuale delle giovani marmotte per aspiranti designer up to date, che in esso potranno procurarsi concetti fascinosi a buon prezzo.
Del tipo: se il modernismo (e le sue derive minimaliste, tipiche del postmoderno) dichiarava: «Meno è più» (si vedano certi cavatappi di design filiformi come spaghetti), il sostenismo replica: «Fare di più con meno». Se il modernismo enunciava come parola dordine «Uniformità», ecco che il sostenismo controbatte con: «Diversità». «Autonomia» suggeriva poi il padre di famiglia modernista ai propri figli. «Interdipendenza» dichiara oggi il figlio al padre. Se per gli architetti modernisti la natura «era una risorsa», per i sostenisti la natura «è ispirazione». Basta con la centralizzazione, viva la «struttura a rete»! È finita con il lineare, siamo nellepoca del «ciclico»! Basta con lusa e getta, viva il fatto a mano! Globalizzazione? Localizzazione? No, «glocal»! Ai sostenisti non interessa la cosa pubblica, ma la comunità, anzi: la «community». Quella un po impalpabile del web.
Di tutto ciò sono responsabili due scuole di pensiero. La prima è quella delleditoria in stile americano, che commissiona a qualche autore una bella marmellata di concetti che facciano presa emotivo-cerebrale sul lettore. Leditor gli dà una sistemata e poi affronta la cosa più importante di tutta loperazione: si mette alla ricerca della parolina magica, del brand, della «mucca viola», del concetto improbabile, ma di sicuro appeal per i mass media.
La seconda scuola di pensiero causa di tutto ciò, e con maggiori responsabilità, è quella di Gilles Deleuze e compagnia, che sostenevano quella che già allora, negli anni Sessanta, era una sciocchezza, ma che nel nostro tempo è diventata unaberrazione: «Pensare è produrre concetti». Quali che siano. E così rigore e logica sono andati a farsi benedire.
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