Pur se dal popolo del «backstage» è accreditata come «la più importante giornalista di moda del mondo», non so se nelle vesti di fashion reporter questa Suzy Menkes debba essere presa così sul serio.
Da come si veste, di moda dovrebbe capirne un tubo. Però bisogna ammettere che di mercato e più precisamente degli interessi del mercato ne sa quanto e più di un faccendiere alle prese con l’insider trading. Che poi sarebbe, in senso lato, ovvio, il predominante interesse della Menkes.
Furba, è furba. Spara ad alzo zero sugli stilisti italiani, li ridicolizza, li umilia, li sfracella, però con un’avvertenza, quella che le eviterà critiche e insulti da parte della società civile e della stampa detta democratica: la moda italiana fa sì schifo, ma la colpa è di Berlusconi. Le credenziali dell’antiberlusconimo consentono dunque alla Menkes di fare, più o meno impunemente, i suoi sporchi lavoretti. E cioè liquidare il settore più cospicuo del Made in Italy a favore degli stilisti inglesi (l’astuta Susy è suddita di Sua Maestà Britannica), magari francesi e americani che non avendo il talento dei nostrani, più di altri hanno avvertito sulle natiche il morso della crisi economica.
Invertendo - lei, «la più importante giornalista di moda del mondo» - l’ordine naturale delle cose sostenendo che non sono gli stilisti a influenzare la moda, ma è questa a suggestionare quelli, Menkes se ne è dunque uscita con la bischerata che gli abiti presentati alle sfilate di Milano risulterebbero «velinari», ispirati cioè dalle veline, «le procaci, esibizioniste e poco vestite presentatrici tv che il signor Berlusconi ha inventato come Mogul televisivo».
Se l’accusa fosse stata mossa alla moda francese, la signora Menkes sarebbe finita stritolata da un collettivo coro di indignate proteste cui avrebbero dato voce anche la politica, anche le istituzioni. Ciò che purtroppo non accadrà da noi per via del lasciapassare antiberlusconiano del quale Menkes si è marpionescamente fornita. E così un ulteriore attacco al nostro settore produttivo e in particolare al fiore all’occhiello del Made in Italy non avrà quella risposta che si merita e che sarebbe dovuta nell’interesse generale.
Non bisogna infatti essere cultori della materia per cogliere la pretestuosità delle velenose frecciate della fashion reporter nota per la sua pittoresca pettinatura a banana.
Ogni scheggia di smalto fatta saltare da quell’insieme di estro, gusto e professionalità che è lo «stilismo» italiano, si traduce in un vantaggio per la concorrenza e necessariamente per una flessione del consenso e dunque delle vendite dell’industria italiana della moda, che in sé sarà anche una cosa fatua, ma contribuisce a rimpolpare il famigerato e non troppo ben messo Pil (oltre a dare lavoro a decine di migliaia di addetti).
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