L’intelligenza viene da Dio e dà vita alla scienza

di Don Luigi Verzé

Parlo di intelligenza, un vocabolo generico che assomma diverse operazioni della stessa facoltà: intelletto, ragionevolezza, memoria, consapevolezza, coscienza, e altre ancora. Intelligenza da inter-lego (en lego = raccolgo per scegliere); in italiano lo tradurrei in facoltà di apprendere per ragionare. Si può anche dire che l’intelligenza è intelletto, in quanto percepisce i principi immediatamente senza processo razionale. Per esempio, «tutto ciò che si muove è mosso da altri». Di solito per intelligere si intende anche immaginare, credere, capire e soprattutto ragionare. Preferisco la definizione di «apprendere per ragionare», perché l’apprendere per ragionare è proprio della specie umana, mentre il solo apprendere è proprio anche del genere animale. Come l’animale anche l’uomo apprende, ma l’uomo apprende per razionalmente elaborare. Ciò rende l’uomo un individuo o essere inconfondibile con altri esseri, né da essi derivabile se non per creazione apposita da parte di chi ha un’insuperabile pienezza intellettuale senza spazio e senza tempo.
Nessun dubbio che l’uomo sia essere pensante. Né alcun dubbio che la sua identità e, quindi, il suo pensare l’abbia avuto dal Genio Assoluto. Per sinaptogenesi? Un modo di creare dal nulla se non da sé increato e inesauribile. Dubitarlo? È come pensare che l’intelligenza detta, impropriamente, artificiale alla quale si pensa di dare una sua autonomia, non sia creazione dell’uomo intelligente che in qualche modo la comunica dal suo sé mediandola con la filosofia metodica, con la linguistica, con la psicologia cognitiva e l’informatica. Ma il potere intellettivo, a ben pensarci, è non solo componente dell’identità uomo, ma anche - per dirla in latino barbarico - il suo ipsismo, quello, cioè, che è lui stesso e non il simile, ma quello unico e irripetibile.
Ora, però, parliamo di intelletto e, quindi, di potere intellettivo dell’uomo in quanto sostanzialmente e non evolutivamente proprio dell’uomo. Ciò, non per negare che l’intelletto nella sua espressività non possa, anzi non debba, evolversi, ma la sua potenzialità, il principio da cui tutto il suo derivato emana, è realtà indivisibile dal corpo e dall’anima, di sua natura invariabile come l’io, che né con l’età né con le contingenze può mutare.
È, cioè, quell’identità-uomo che Aristotele chiama sinolo, cioè materia e forma in un unum. Corpo-intelligenza-anima: un sinolo, dunque, di tre componenti tra loro inseparabili, pena la nullità di uomo. Ma quale la funzione dell’intelligenza tra le altre due componenti del sinolo? Oso dire che l’intelletto è cerniera o albero di trasmissione simultanea tra corpo-materia e anima-forma o sostanza. L’intelligenza imbevuta nell’amore è nel corpo e nell’anima, come entità identificante dell’uno e dell’altra. Ho detto intelligenza imbevuta d’amore perché l’intelligenza, come la fede, senza amore cade «come corpo morto cade». Corpo, intelligenza e anima sono genoma-uomo in senso di specie e di individualità. Non può non essere così, pena il mio non essere io. È proprio la mia intelligenza che lo percepisce e lo pretende, lo cognitivizza e lo spende a diversi livelli: la logica, l’empirica, la metafisica.
Platone ci insegnò a penetrare, anzitutto, nei cieli della metafisica senza alcuna obiezione aprioristica di tipo «criticistico kantiano». Conoscenza per intuizione. Egli navigava nel divino delle idee quale innato principio, primo nell’ordine logico, senza cui nulla è intellettualmente conoscibile. La concezione platonica anticipa il teismo e la soprannaturalità cristiana, arricchita dalla rivelazione. Direi che a fronte di quella, il concretismo si smarrisce come in un’atmosfera non respirabile.
Aristotele è anch’egli un aristocratico della cultura. Per la conoscenza segue, peraltro, la via apodittica (apodeiknymi = dimostrare) e, cioè, deduce da un’evidenza la conoscenza per dimostrazione logica. La prima è la via agostiniana, la seconda è la tomistica. Ambedue confluiscono nella verità rivelata anch’essa modalità e argomento del conoscere, sempre proprietà dell’intelletto. L’intelletto, quindi, è capacità dell’apprendere per ragionare. Anche l’high-tech ne è il prodotto, come tutti i media elettronici. Il raziocinio, infatti, è la facoltà di valutazione tra concetti sulla base della logica e dell’evidenza. Ma l’intelligenza è nata dall’intelligenza di Dio e in Dio converge.
Faccio un doppio raziocinio in un esempio unico: 1) Albert Einstein, un sommo matematico e fisico, ha scoperto la relatività studiando la gravitazione, l’atomo, o molecola materiale, la teoria dei calori specifici e quella dei quanti e, perciò, dei fotoni. Si può dire che palleggiava la metafisica e la fisica quasi sua innata facoltà, con metodo induttivo, statistico ed equazionale. Alla luce di ciò, il suo rigore logico lo portò alla fissione nucleare. Ne fu sgomento e argomentò: la scienza senza Dio e storpia e pericolosissima. 2) Ed ecco il secondo raziocinio: se un uomo come Einstein alla luce del suo dedotto scientifico ha dovuto sconfinare in Dio e se come lui innumerevoli altri, infinitamente più acuti di me in svariate discipline, hanno raggiunto una tale deduzione, anch’io posso credere, avendone oltretutto anche le mie buone ragioni personali. Ne cito una: se la mia intelligenza, per niente eccezionale, si spinge come quella di molti altri vicino a Dio, volendolo anche toccare, non è giusto che anche l’intelligenza di Dio si pieghi verso la mia sì da toccarmi? La risposta è l’Incarnazione di Dio quale Cristo ha dimostrata in sé.
Fin qui parliamo del come conoscere, oggi reso più facile anche in termini di che cosa conoscere. Com’è chiaro, il come si conosce è argomento di psicologia, di dialettica, di logica, di criterio logico ecc. Qui, però, si vuol dissertare del conoscere come sua fonte e potenza, cioè dell’intelletto che, pur nell’evoluzione dei metodi, dell’ambiente, delle conquiste, rimane sempre una potenzialità formidabile, inconfondibile con il suo obiettivo e le sue conquiste. Parliamo, dunque, della macchina in sé, non della strada o della meta. Quella potenza che mentre cammini vola, che mentre leggi, in continuità pensa. Perfino quando preghi, disperde energia in mille direzioni a danno della verticalità.
Ricordo di aver letto nell’autobiografia di Teresa di Lisieux che prima di centrare il concetto di Padre nostro, lo doveva ripetere moltissime volte «Padre nostro, Padre nostro...» e poi, coerentemente procedeva. La conoscenza, quindi, è il prodotto dell’intelletto che accoglie le informazioni, le metabolizza, le processa, ne deduce e perciò le moltiplica sino a farne un sapere senza fine che crea sapere e progresso, che investe sempre meglio la potenza dell’intelletto con la fiducia spesso accanita, quasi indomabile istanza del sapere. Lo ritengo effetto di quel «possidete eam» che il Creatore, agli inizi della nostra specie dotata di innata intelligenza, ci iniettò consegnandoci l’universo. Da qui la cognitivizzazione che il potere dell’intelletto può spingersi anche oltre ogni limite sferico, anzi è la sua istanza naturale.
Platone ce l’ha detto. Aristostele lo convalidò partendo dall’empirismo. Andare, cioè, verso là donde l’intelletto è emanato. Il dito del Creatore nella Sistina di Michelangelo ce l’ha evidenziato. Molti filosofi ci sono arrivati a toccarlo con il dito. Pochissimi hanno bucato questa sfera intravedendovi l’aura soprannaturale. È la logica, più l’amore, che vi ci «conduce». Innegabilmente Dante e sommi asceti, come Paolo di Tarso, lo sperimentarono e ve ne rimasero contagiati sì da calcare con il tacco le cose di quaggiù non in senso spregiativo, ma nel senso che l’intelligenza pretende molto di più. L’idea della caverna in Platone non era spregio dell’essere corpo, ma tensione della sua eccezionale intelligenza che sapeva d’esser molto di più che solo corpo.
Intelletto: un potere, quindi, rapidissimo anzi fulmineo in linea orizzontale senza limite circolare, in linea verticale, perpendicolare a Dio stesso che ne rivela l’obbligatoria derivazione creazionale dal Sé di Lui stesso. Infatti, quando la mia intelligenza o, più semplicemente, il mio pensiero tenta di toccare Dio con spontaneità, lo bacia e poi se ne ritrae come da un amabile evidente, ma impossibile. Quando però ci si vuol impegnare a capire Dio, ci si perde come nella sfera stellare e l’intelligere diventa semi-contemplazione per la quale il tempo è sempre stretto. L’intelligenza totale pretende l’eternità.
Lo so, altri preferiscono la pigrizia della rinuncia e si auto-definiscono atei, ma trattasi di un ignavo velo rinunciatario alla propria intellettualità. Come esce il pensiero dall’apparato neurotico cerebrale? Ma esce da lì? A pensarci bene me ne pullulano serissimi dubbi. Riservo a me la consapevolezza psicocognitiva che l’intelligenza è componente imprescindibile e inseparabile del mio io, che in se stesso non è materialmente quantizzabile. Solo la sua applicazione e il suo prodotto lo possono essere. L’intelligenza non è anatomizzabile perché non è fatta di parti come non lo è lo spirito. Quindi, l’intelligenza è eterna e proviene dall’Eterno. La sua attività, in quanto io, inizia nel tempo in uno con la morfologia del corpo e con l’infusione dell’anima.
Se dal cerebro anatomico esce il pensiero, il come, il quanto, il numero, la velocità, la locazione dei neuroni del lobo frontale o parietale, od occipitale, e loro funzione, quali siano nella massa cinerea o corticale, dove stiano i neuroni-specchio, quelli cioè che facilitano la conoscenza del mio prossimo, se interfacciati da onde elettriche, se e come sia utilizzabile meccanicamente la funzione della corteccia cerebrale, se il cervello nasce con l’innata «grammatica generativa», come suppone Noam Chomsky, di tutto ciò non ho competenza per disquisire. So, però, che la scienza e un prodotto dell’intelligenza.

La sapienza? È un sovra-sapere impregnato di sapore divino. Questo io capisco mediante la logica.
* Presidente della Fondazione San Raffaele e Rettore

dell’Università Vita-Salute

San Raffaele

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