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Riccardo Signori

Quel nero dalla faccia triste non è mai piaciuto agli altri neri d’America. Floyd Patterson era il Robin Hood dell’America bianca e quando John Kennedy gli chiese di battersi contro Sonny Liston, il brutto orso manovrato dalla mafia, non seppe dire di no. Pur sapendo come sarebbe finita. Fu la peggiore delle esperienze per un tipo dalla personalità difficile e il complesso facile. Non a caso il mite Floyd venne ribattezzato «Freud Patterson». Se n’è andato anche lui, ha lasciato la vita a 71 anni, cinquant’anni dopo aver conquistato il titolo di campione del mondo dei pesi massimi, il più giovane della storia prima che arrivasse Mike Tyson. È morto a New Paltz, malato di Alzheimer e di un cancro alla prostata. A modo suo è stato un pugile da record, non solo per quella giovane età in cui è stato campione. Nel suo album ha raccolto l’oro olimpico dei pesi medi alle Olimpiadi di Helsinki ’52, è stato il primo pugile statunitense a diventare campione del mondo dopo essere stato campione olimpico, il primo a riconquistare la corona dei pesi massimi dopo averla persa. Anche una bella macchina da soldi. E Cus D’Amato, il manager che avrebbe gestito anche Tyson, fu un campione nel tenerlo in piedi più a lungo di quanto le doti pugilistiche avrebbero permesso. La carriera di Patterson fruttò qualcosa come otto milioni di dollari, un terzo dei quali finì nelle tasche di D’Amato. Un bel duo: D’Amato cercò sempre di evitare match troppo rischiosi al protetto e Patterson sfruttò al meglio le sue doti: mobilità di gambe, velocità di braccia e quello strano modo di saltare sul ring, come un canguro. Lo chiamarono stile «peek a boo», vale a dire: il pugile che gioca a nascondino.
Nato a Waco, nella Carolina del Nord, il 4 gennaio 1935, terzo di una famiglia di undici fratelli, cresciuto nel ghetto nero di New York, Floyd ha percorso strade obbligate prima di arrivare al ring: povertà e delinquenza. Finì in una sorta di riformatorio, mise del tempo ad uscire dall’esercito delle pance vuote con quella sua faccia eternamente triste. «Credetemi», raccontò un giorno, «da piccolo non credo di essermi mai scoperto a ridere».
Nella sua storia sul ring, Patterson ha provato di tutto. Il grande sogno, quando mise ko in 5 round il vecchio e logoro Archie Moore (30 novembre 1956 a Chicago) e conquistò il mondiale dei massimi. Il gran puzzo d’affari quando fece tre incontri mondiali con Ingemar Johansson, il bianco coniglione svedese che, a Helsinki, si fece squalificare nella finale dei massimi per scarsa combattività: la prima volta Floyd andò al tappeto sette volte, nelle altre due stese il rivale tra il quinto e il sesto round. La gran mortificazione quando finì distrutto da Sonny Liston in 126 secondi. Quella notte Floyd scappò dalla porta di servizio del Comiskey Park di Chicago, nascosto da un paio di occhiali scuri, barba e baffi finti.

Travestimento durato il tempo di essere smascherato dalla polizia che voleva arrestarlo per eccesso di velocità in auto. Da allora il declino, le sconfitte con Alì e Jimmy Ellis. Floyd è entrato e uscito dalla leggenda. Ma un giorno Alì gli rinfacciò: «Non ti ho mai visto fotografato con un bambino nero».

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