L’INTERVISTA 4 MASSIMO CACCIARI

Massimo Cacciari - filosofo tra l’altro autore, quasi trent’anni fa, del saggio Sinisteritas, dove suggeriva alla sinistra di cambiar nome perché quello che aveva era di cattivo augurio - è tra gli intellettuali di sinistra più attenti alla cultura di destra, sebbene lui stesso ritenga che oggi queste due categorie politiche siano obsolete.
Professore, bisogna bruciare sinistra e destra?
«Si sono bruciate da sole. I termini e i contenuti che le hanno definite nel XX secolo sono superati. Tutti i nostri problemi esulano da queste categorie, anche se c’è ancora chi cerca disperatamente, per meccanismi inerziali, di tenerle vive. Il pensiero della sinistra che la destra sia solo mercato sfrenato e individualismo, per esempio, è inerziale. Come l’anticomunismo della destra. Nessuna di tali posizioni appartiene al postmoderno in cui siamo costretti a vivere».
Dicono che pure il postmoderno sia finito. In che tempo viviamo, dunque? Chiedo al filosofo, non al politico.
«Potrebbe essere quello messianico di Walter Benjamin, perché no? In cui ogni istante è una porta aperta che dà accesso alla dimensione in cui una persona vive ogni momento come l’ultimo in cui rendere ragione delle proprie azioni. A ogni modo non è più il tempo del ’900, in cui ci si affidava a identità collettive che si trovavano già date e che ci identificavano a prescindere dalla nostra decisione personale. Non è più nemmeno il tempo in cui se ne deve attendere un altro, che sia il Sol dell’Avvenire o il Terzo Reich o che».
Eppure lei afferma che mai come oggi tutti sono in caccia di identità collettive più o meno mitologiche.
«Il nostro linguaggio è ancora soffocato da una cultura politica reazionaria, e ci sono reazionari di destra e di sinistra. E ancora vive, purtroppo, sono le contrapposizioni pubblico/privato, egualitarismo/meritocrazia e via così. E non mi dica che uno come Beppe Grillo sta “sopra” tutte queste cose, perché se c’è un guru all’opposto della cultura responsabilizzante, se c’è un demagogo, è lui. Per interpretare la nostra epoca occorrono invece analisi, ragionamento, discussione».
E forse anche qualcuno che, in altro modo, faccia la sua stessa operazione degli anni ’60-70, quando lei propose alla sinistra i paradigmi spiazzanti della cultura di destra...
«Lo sforzo che abbiamo fatto io e altri, come Marramao, Bolaffi e Esposito, per riportare una certa sinistra a ragionare sulla cultura di destra, dal primo Thomas Mann a Jünger fino a Heidegger, non era nel segno di contrastare quello che oggi viene chiamato il “consumismo della sinistra” o la sua liberaldemocrazia. Detto questo, si voleva far comprendere alla sinistra di allora, tra l’altro rappresentata da buone leadership, cosa fosse stato il ’900 in tutta la sua complessità».
Ma di cosa non si rendeva ben conto la sinistra a questo proposito?
«Del fatto che la critica della democrazia era meglio sviluppata in autori di destra che nella vulgata gramsciana. E che era necessario essere dotati di spirito critico verso la democrazia, che è un sistema politico sempre in crisi, per definizione. Il mio era un discorso minoritario, ovvio, e in polemica con una certa retorica di sinistra riguardo i sacrifici, il lavoro, le classi sociali. Oggi, è tutto di nuovo cambiato. Servono altre categorie di pensiero».
Ma la sinistra non si guadagna ovunque, come ha scritto Giuliano Ferrara, la «pagnotta della simpatia»?
«(Dopo due minuti di risate, ndr) A me non risulta. Speriamo di sì! Comunque la trovo un’analisi completamente sballata, anche dal punto di vista dell’antropologia culturale. E poi non ha senso dire che la destra fa fatica a essere simpatica, quando in Italia destra e sinistra sono indigeste, come si vede, e antipatiche tutte e due».
Bisogna, come lei dice, vedere se riusciamo a dividerci su cose che non riguardano più il ’900?
«Appunto.

Vedere se riusciamo a discutere su qual è la costituzione democratica più efficiente nell’epoca della globalizzazione, quale federalismo scegliere, le decisioni bioetiche migliori connesse allo sviluppo tecnologico, se esiste un welfare che non sia solo burocrazia».

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