Tra i moralisti che non hanno titolo per esserlo, svetta Eugenio Scalfari. Forse lo sa o forse no, comunque se ne impipa e da mezzo secolo ci ammannisce predicozzi. Ha collezionato infiniti errori, senza mai fare autocritica. Aiutato da una psicologia elementare che non dà spazio al dubbio, Scalfari è la quintessenza del doppiopesismo: ciò che vale per me, per te non vale. Ho ragione, anche se dico l’opposto di quello che ho già detto perché - parole sue - «la coerenza è la virtù degli imbecilli». Insomma, barba da profeta, mentalità da spaccone.
Nell’ultimo sermone domenicale, quanto mai scombiccherato, il Fondatore di Repubblica ha detto la sua sull’«aggressione del Giornale all’Avvenire». Ha scritto in particolare che «Vittorio Feltri è un giornalista dedito a quello che i francesi chiamano chantage o killeraggio». Come sempre quando Scalfari si cimenta con le lingue prende fischi per fiaschi. Chantage in francese significa ricatto. Ora l’atteggiamento del Giornale verso Dino Boffo, il moralista che dirige l’Avvenire, tutto è salvo che un ricatto. Boffo non è stato minacciato per ottenere da lui qualche indebito vantaggio, ciò che è tecnicamente un ricatto. Boffo è stato colpito e affondato come punizione per essersi impancato senza averne le credenziali.
L’Avvenire nelle settimane scorse aveva fatto un reiterato liscio e busso al Cav per i suoi presunti comportamenti d’alcova.
Costui è anche il leader del centrodestra e il punto di riferimento di milioni di elettori. Il Giornale che rappresenta, con pochi altri organi di stampa, questo schieramento, ha perciò reagito. Non è un ricatto, né un killeraggio è, semmai, una rappresaglia. Cosa c’è di più pulito, chiaro e leale che colpire con le stesse armi usate per primi dagli altri, chi decide di fare polemica politica con l’ingerenza della vita privata? Feltri e la redazione hanno voluto dimostrare che: a) come con le ciliegie, un pettegolezzo tira l’altro; b) se si sale in cattedra avendo scheletri nell’armadio, questi saltano fuori; c) chi si traveste da Savonarola troverà sempre un Torquemada che lo farà a fette. Non si capisce perché ciò che è consentito all’Avvenire non lo sia al Giornale. Senza contare che l’azione di questo quotidiano rientra nelle regole del giornalismo, cosa che non si può dire dell’Avvenire. Boffo ha utilizzato contro il Cav voci e malignità di tipo sessuale.
Feltri un documento giudiziario, pubblico e certo per definizione. Stando alle carte, il virtuoso direttore del quotidiano dei vescovi avrebbe fatto un odioso stalking a una moglie che difendeva il proprio matrimonio contro di lui e le sue interessate ingerenze. Se poi Boffo ne esce male, il problema è suo.
L’alzata di scudi nata dalla rivelazione è pura ipocrisia. Spiace che ci sia rimasto impigliato anche un alto prelato come monsignore Bagnasco, presidente della Cei. Il sant’uomo ha difeso baionetta al piè e con toni alterati il suo pupillo. Avrebbe fatto meglio a consigliargli a tempo debito maggiore prudenza. Ammettiamo pure che, per pacifismo, il vescovo ignorasse la regola «chi di spada ferisce di spada perisce». Non poteva però non conoscere il mite ammonimento evangelico: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E che perciò, Boffo, essendo peccatore, non avrebbe dovuto fare il fromboliere dalle colonne del giornale cattolico per eccellenza.
Naturalmente tutte queste cose non hanno nulla a che vedere con Scalfari. Lui spara a zero senza badare a ragioni e torti solo per annichilire il Berlusca, Feltri, il Giornale che vede come il fumo negli occhi. Nel sermone da cui siamo partiti, Eugenio lascia cadere un paio di osservazioni che vorrebbero essere pungenti ma sono grottesche. Dice: «I Tg in questi giorni hanno parlato del “Giornale di Feltri” omettendo una notizia non secondaria ... : il “Giornale di Feltri” è il Giornale che fu fondato da Indro Montanelli, per molti anni di proprietà di Silvio Berlusconi... ». Embé? Che sia del fratello del Cav lo sanno anche le pietre e che sia stato fondato da Montanelli cosa aggiunge? Forse che ha una tara originaria? Vattelapesca.
Nel prosieguo, Barbapapà si inventa la panzana dell’incontro a Palazzo Chigi tra Feltri e Berlusconi già smentita dagli interessati. Per poi concludere con un travaso di fiele indicativo di uno stato mentale inquietante. Riferendo una presunta voce (vera? inventata?) secondo cui i vescovi avrebbero chiesto al Cav il licenziamento di Feltri, il Fondatore maligna: «Ma Berlusconi, se anche lo volesse, non lo farà. L’ha fatto con Mentana, ma Mentana non è un giornalista killer. Farlo con Feltri sarebbe assai pericoloso». Come dire che Feltri - oltre che assassino, noto ricattatore - essendo al corrente delle più segrete malefatte del Cav, gliela farebbe pagare cara. Da mandargli i padrini.
Questo è esattamente il giornalismo di Scalfari. Balle, insinuazioni, dire e non dire. Testate e singoli articoli usati per le proprie faccende private e per sfogare paturnie del momento. Elogi ai personaggi che gli tornano utili. Improvvisi voltafaccia quando li ha sfruttati. Mai una notizia disinteressata e nessuno scrupolo nel manipolare il lettore. La verità sarà anche una chimera ma per Scalfari non è nemmeno un obiettivo.
Cinquant’anni fa quando il comunismo era in auge, esaltava l’Urss e i progressi proletari. Quando crollò nell’89, disse che il mondo si era liberato da una lugubre minaccia. Ha giocato con le ideologie mettendo se stesso e i suoi giornali al vento di chi sembrava di volta in volta il più forte. Lo stesso ha fatto con gli uomini, spacciando il proprio personale vantaggio per il perseguimento di interessi generali.
Quando negli anni Settanta cercava finanziatori per il progetto di un quotidiano, la futura Repubblica, si attaccò a questo e a quello. Se però non gli dava retta lo massacrava.
Tampinò per primo Eugenio Cefis, potente padrone all’epoca di Eni e Montedison. Lo blandì sull’Espresso di cui era stato direttore e nel quale mantenne sempre lo zampone. Cefis però gli rispose picche e Scalfari passò poi anni a dargli addosso. Lo stesso fece con Rovelli e Ursini due industriali che si sono poi rivelati una patacca, con debiti miliardari e fughe all’estero. Li aureolò con i suoi articoli propiziando i loro affari. Ottenne il finanziamento per Repubblica e, caduti in disgrazia, li mise in croce rinnegando l’antica dimestichezza.
Il caso di Michele Sindona è il più esemplare dello stile scalfariano. Tuttora, Eugenio passa per il più fiero antagonista di questo finanziere siciliano vicino alla mafia, mandante di omicidi e morto avvelenato. In realtà, Sindona fu una creatura del disinvolto giornalista. Fallito il tentativo di circuire Cefis, Eugenio si rivolse al banchiere siciliano che ne era l’antagonista. Fece anche una battaglia interna nell’Espresso per favorirlo. Il responsabile dell’economia, Claudio Risè, era infatti contrario a don Michele. Eugenio si mise di traverso e minacciò Risè di ritorsione se avesse continuato nella sua campagna. Quando Sindona fece la famosa Opa Bastogi, società di punta dell’ormai odiato Cefis, lo appoggiò con tutti i mezzi.
All’epoca, Barbapapà (che non aveva ancora la barba) era deputato socialista. In questa veste, presentò un’interrogazione di totale appoggio al tentativo di scalata sindoniana. Scrisse che il siciliano «ha già fornito tutta la documentazione necessaria per comprovare la serietà dell’offerta»; che l’operazione «favorisce una massa di oltre trentamila piccoli azionisti»; che essa inoltre «favorisce la progressiva unificazione del mercato finanziario europeo». E giù un’altra serqua di affermazioni al miele. Una sviolinata in piena regola. Il tutto pensando alla nascente Repubblica e senza consultare il Psi di cui era deputato. Tant’è che appena seppe dell’iniziativa, Riccardo Lombardi, responsabile economico del partito, convocò l’incauto e lo prese per le orecchie. «Onorevole Scalfari - gli disse a brutto muso - ricordi che prima di impegnare il partito deve chiedere l’autorizzazione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Gegè, questo all’epoca il soprannome mondano del giornalista (lo ebbe nella cerchia del Mondo di Pannunzio con riferimento alla ricercatezza del vestire) farfugliò: «Ne avevo discusso con Mancini (Giacomo, pezzo grosso del Psi, ndr)». Ovviamente, non era vero. La cosa comunque non ebbe seguito perché l’Opa sindoniana fallì.
Bene, dopo essersi esposto fino al ludibrio, ai primi sintomi del tracollo di don Michele, Gegè si rivoltò con furore contro di lui. Sindona, da arcangelo, diventò il «bancarottiere» per antonomasia. Scalfari imputò agli altri di averlo sostenuto - sopra tutti, Andreotti e la Dc che aveva avuto da lui due miliardi per la campagna contro il divorzio - con queste testuali, spudorate parole: «Che Sindona abbia potuto per qualche tempo colpire la fantasia dei giornalisti è comprensibile (excusatio non petita, ndr).
Due pesi e due misure. Come oggi che si impanca col Giornale dall’alto del suo magistero. Di cui è il solo a credersi depositario.
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