L’Italia dei pm realizza l’incubo di Orwell

C’è uno Stato dove, tra gli uffici di un ministero, esiste anche quello che analizza libri e articoli di giornale per vedere se è osservato il «politicamente corretto»: se non lo è scatta la denuncia. In questo Stato esiste anche una Corte Suprema devota alla «pulizia linguistica»: decidere se usando una certa parola si commette reato oppure no. E sempre in questo Stato si tende a parlare in modo vieppiù elementare, rudimentale, sincopato, grazie anche al linguaggio telematico e dei telefonini. E dove le vecchie parole hanno perso il significato originario per acquisirne, in forza del conformismo assurto a sistema e di minacce più o meno velate di sanzioni anche morali, uno peggiorativo.
In questo Stato, che fa l’apologia della riservatezza o privacy e in cui la Costituzione sancisce la segretezza della corrispondenza, ci sono centinaia di migliaia di persone il cui telefono è controllato: anche coloro che casualmente parlano con la persona controllata sono a loro volta controllati e coinvolti in indagini che nulla hanno a che vedere con quella originaria.
E c’è uno Stato in cui tutti indagano su tutti, in un tourbillon di accuse e controaccuse, querele e controquerele, processi e controprocessi: giudici e ministri, avvocati e giudici, giudici e giudici, polizia e giudici e ministri e avvocati, eccetera eccetera.
Qualcuno penserà: non è altro che una versione riveduta e aggiornata del famosissimo e citatissimo (ma poco letto) 1984 di George Orwell di cui da poco sono trascorsi, e ignorati, i sessanta anni dalla pubblicazione (uscì nel 1949): lì, nello Stato di Oceania, il protagonista, Winston Smith, lavora in un ufficio del Ministero della Verità e passa il suo tempo a controllare libri e articoli di giornale del passato per modificare termini e parole, aggiornandole alla ideologia del Big Brother, il Grande Fratello (ma più esattamente il Fratello Grande, il Fratello Maggiore), il padre-padrone che impone la neolingua, un newspeak che si contrappone all’oldspeak: non solo più essenziale, sintetica, contratta, ma in cui le parole cambiano il senso: ad esempio «pace» vuol dire «guerra», il Ministero dell’Amore è quello in cui si torturano i dissidenti, e così via. E in cui tutti i cittadini sono controllati nelle loro case da una telecamera che non solamente trasmette slogan del regime, ma fa anche vedere quel che loro fanno.
Questo il Paese da incubo immaginato dall’ex socialista Orwell poco prima di morire, pensando a un’Europa dominata dallo stalinismo. Questo il Paese che rischia di diventare l’Italia grazie alle trovate di certa magistratura politicizzata, forse involontariamente agevolata da certe gaffe del centrodestra, cioè di una forza politica che si proclama liberaldemocratica e del liberalismo ha fatto la propria bandiera. Altro non si può pensare di fronte alla denuncia dell’amico e collega Vittorio Macioce finito sotto inchiesta dell’Ordine dei giornalisti per una denuncia del ministero delle Pari opportunità dove esiste a quanto pare un ufficio che legge, sottolinea e prende provvedimenti nei confronti di chi usa termini non corretti politicamente. Orwell redivivo, 1984 rivisitato. Non è più la dittatura del Grande Fratello (usiamo questo termine), ma della Grande Sorella potremmo dire, che impone i diktat della politically correctness come nemmeno nei Paesi anglosassoni, che hanno inventato questa ossessione, si è arrivati a fare a livello governativo.


Ci si chiede, umilmente, perché questo vento demenziale stia squassando il governo Berlusconi, per quale motivo si corra dietro a fisime che sembrerebbero tipiche della sinistra massimalista, oltranzista e militante, perché si debba cadere in queste trappole di una demagogia assurda e illiberale impostaci dal conformismo estero. Forse un’attenta rilettura ogni sera prima di addormentarsi del capolavoro orwelliano sarebbe auspicabile agli «esperti» di cui si è circondata la giovane ministra delle Pari opportunità. E non solo a loro.

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