Pier Augusto Stagi
S e solo riuscisse a vincere il Giro d'Italia potrebbe dire al mondo intero di aver conquistato tutto ciò che di più importante c'è sul pianeta in materia di ciclismo. Un Tour l'ha vinto, così come una Vuelta, un titolo olimpico e un mondiale (a cronometro), eppure Jan Ullrich, croce e delizia dello sport tedesco, verrà al Giro d'Italia con un solo obiettivo: preparare il Tour de France. Abbiamo raccolto il suo pensiero alla vigilia della partenza del Giro d'Italia, che scatterà sabato prossimo da Seraing, in Belgio. Ascoltiamolo.
Insomma, viene al Giro pensando al Tour...
«Il Giro mi piace, ma la mia priorità resta la corsa francese. Certo, non vengo in Italia per portare in giro la bicicletta, un segno della mia presenza vorrei lasciarlo, magari vincendo una bella tappa».
In chiave Giro chi sono secondo lei i favoriti?
«I soliti nomi: Basso, Savoldelli, Cunego, Simoni e Di Luca, ma qualcosa potremmo inventarci anche noi della T-Mobile».
E in chiave Tour, chi teme di più: Ivan Basso o le strategie di Bjarne Riis?
«Conosco tutti e due, però per vincere il Tour bisogna essere semplicemente i più forti. Io credo che il ciclismo non sia così difficile: chi pedala più forte vince e io penso di poter vincere, perché pedalerò più veloce di Basso e di tutti gli altri. E poi, se non mi dovesse andare bene, ci riproverò: fino alla fine della mia carriera proverò sempre a vincere il Tour, la corsa dei miei sogni».
Cosa pensa di Basso: crede davvero che sia lui lavversario più temibile?
«Forte è forte e lha anche dimostrato, ma non è il solo. Ce ne sono anche altri: sicuramente Vinokourov darà il meglio di sé e gli spagnoli non vorranno essere da meno».
Le piace lItalia: ha mai pensato di poter un giorno venire a vivere nel nostro Paese?
«Sto bene dove vivo adesso, vicino agli amici, vicino a mia figlia. Però per allenarsi lItalia è un Paese davvero meraviglioso».
Quale piatto preferisce?
«In verità io adoro i vostri vini, il Sassicaia su tutti, di cui sono un cultore collezionista, ma anche un buon piatto di pasta fatto in casa mi delizia non poco».
C'è una cosa che meno le piace di noi italiani e quella che le piace più di tutte?
«A me lItalia piace moltissimo: siete persone gentili e soprattutto sapete vivere bene. Amate i piaceri della vita e per questo è piacevole stare con voi. Cosa non mi piace? Lasciare lItalia».
Lei ha passato momenti di grande sconforto, momenti nei quali ha anche pensato al ritiro: che idea si è fatto del dramma vissuto da Marco Pantani, un grande campione che non ce lha fatta a rialzarsi?
«È facile dire bisogna pensare positivo e andare avanti, ma non è così semplice. Io sono stato per tanto tempo al buio, poi un giorno ho cominciato a rivedere la luce. Forse ho avuto fortuna, ho incontrato sulla mia strada gente giusta, io non so chi abbia incontrato Marco e non conosco nemmeno bene la sua storia. Posso solo dire che mi dispiace tantissimo che Pantani si sia lasciato morire, che si sia chiuso in se stesso, che abbia perso la sfida più importante. Marco è stato un corridore eccezionale, che in salita ha fatto vedere cose uniche. Per me era un buona persona. Troppo buona».
Qual è la critica più ingiusta che le hanno mosso in questi anni?
«Tante, ma ho imparato a non ascoltare. Nessuno è perfetto e nemmeno Jan Ullrich lo è. Ma una cosa è certa: io ho sempre dato il massimo. E continuerò a farlo».
Quando ha imparato ad andare in bicicletta?
«A cinque anni e mezzo. Era la bicicletta di mio fratello, vecchia però di ventanni, senza cambio di velocità. Il primo giretto finì dopo 30 metri, contro i bidoni della spazzatura».
Si ricorda la prima vittoria?
«Sì, a nove anni, in una corsa campestre: vinsi, battendo ragazzini anche di tre anni più grandi. E fu grazie a questa vittoria che mi si spalancarono le porte del ciclismo. Un giorno Peter Sager, il mio allenatore, si presentò da mia mamma. Con sé aveva una tuta color rosso vino, maglie da ciclista con tasche e maniche applicabili e scarpe da ginnastica. E poi una bicicletta Diamant di colore blu. Da quel momento non pensai ad altro che al ciclismo: prima gara, prima vittoria».
Primo anche a Oslo...
«Era il 1993, mi laureavo campione del mondo dilettanti: quella fu una delle giornate più belle della mia vita. Io avevo appena diciannove anni, e quando rientrai in Germania, allimprovviso non ero più uno sconosciuto. Quellanno, sullo stesso circuito, a ventun anni, si laureò campione del mondo dei professionisti Lance Armstrong, un ragazzo texano che imparai a conoscere molto bene».
Prima del suo primo Tour ci fu quello di Riis, nel 96: lei secondo, ma per molti il vincitore morale della corsa, frenato per strategie di squadra.
«Riis quellanno era fenomenale, meritò di vincere. Molti mi chiesero se io avessi potuto vincere quel Tour. Io dico che ero così forte perché Bjarne mi sollevava da ogni pressione».
A proposito, cosa pensa del doping?
«Va combattuto, duramente, questo è certo. Però, nel ciclismo si è anche esagerato: nel nostro sport tutto diventa doping».
Anche lei ebbe qualche problemino in materia...
«Stavo male, avevo ancora disturbi ad un ginocchio, che non ne voleva sapere di andare a posto. Mi dicevano: datti una mossa. Facile a dirsi... Una sera ero giù di morale. Andai con alcuni amici a Monaco al Kunstpark Ost con i suoi bar, ristoranti, discoteche e palcoscenici. Mi dissero: Accidenti Jan, sei proprio giù. Tieni, prendi due di queste. Tra poco ti sentirai magnificamente, credimi. Delle pasticche di ecstasy sapevo che contenevano anfetamine e che erano sulla lista doping. Delle pillole che mi aveva dato il mio amico, invece, non sapevo niente. Ma, mentre in genere prestavo minuziosa attenzione a non prendere nulla di sbagliato, quella sera evidentemente il cervello lo avevo spento del tutto. Ma una cosa voglio dirla, anzi, ripeterla: non era doping per barare, è stata una colossale, imperdonabile sciocchezza che ho pagato pesantemente con sei mesi di squalifica».
Tour 2004, Armstrong e Mayo cadono lungo la salita di Luz Ardiden: lei non attacca e li aspetta. Lo rifarebbe ancora? «Sì, lo rifarei. Fu una decisione presa in una frazione di secondo. Via radio Pevenage mi disse: Qui siamo al Tour de France, Jan, pensa bene a quel che fai. Ci pensai e agii distinto».
Unultima parola su Lance Armstrong...
«Ho sempre pensato che questa nostra rivalità non escludesse il fatto che in futuro, quando non saremmo più stati ciclisti professionisti, saremmo andati insieme a bere una birra o un buon bicchiere di vino. Se ciò avverrà, avremo sufficienti argomenti di conversazione».
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