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L’Italiano zoppica, per rimetterlo in piedi ci vuole una legge

L e prime proposte di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana risalgono agli anni ’70 e portano la firma di linguisti prestigiosi come Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni. Ma solo nel 2001 fu approntato uno specifico progetto di legge che malauguratamente non giunse in porto. Ora un nuovo ddl, opportunamente riveduto e aggiornato, è stato presentato alla Camera dei deputati, promotrice Paola Frassinetti, vicepresidente della Commissione Cultura, che ne illustrerà i contenuti nel corso di una conferenza stampa prevista per il 16 (sala del Mappamondo di Montecitorio).
L’italiano ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese. Ne era ben conscio Vincenzo Monti, quando scriveva: «La lingua è l’unico legame di unione che l’impeto dei secoli e della fortuna, né i nostri errori medesimi non hanno ancor potuto disciogliere: l’unico tratto di fisionomia che ci conservi l’aspetto d’una ancor viva e sana famiglia». Ma negli ultimi decenni l’italiano ha risentito più delle altre lingue europee della nuova congiuntura storica, caratterizzata da due fenomeni opposti e concomitanti: la globalizzazione e il risorgere sotto varie forme di regionalismi o micronazionalismi che diversamente dai patriottismi del passato non uniscono, ma dividono.
I problemi più rilevanti per la tenuta della nostra lingua sono venuti, in ordine di tempo, dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», in base alla quale il friulano e il sardo hanno acquisito lo status di lingue minoritarie alla stregua del ladino e del sud-tirolese. È stata una forzatura legislativa evidente a chiunque: gli idiomi in questione, infatti, non sono parlati fuori del territorio nazionale, né hanno come «lingua di riferimento» o «lingua tetto» una lingua diversa dall’italiano. Come era prevedibile l’applicazione della legge ha dato luogo a un contenzioso tuttora in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla «lingua friulana». «Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall’oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
Si è così instaurata una confusione permanente fra la tutela dei dialetti, che nessuno discute trattandosi di un patrimonio storico del nostro Paese, e la loro parificazione all’italiano, che è tutt’altra cosa, ed ha perlomeno tre controindicazioni: è antistorica, in quanto i dialetti si sono abbondantemente italianizzati, costosa e realizzabile solo sulla carta perché nessuna regione italiana corrisponde ad un dialetto.
A queste insorgenze regionalistiche ha fatto sèguito, sul piano internazionale, il declassamento della nostra lingua, esclusa dalle cosiddette lingue di lavoro della Ue, con la conseguenza che d’ora in avanti tutti i documenti ufficiali verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco. La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia è stata socio fondatore della Comunità europea, come allora si chiamava, e convinta sostenitrice dell’europeismo. Non si può dire quindi che il suo peso politico sia, o sia stato, secondario, senza contare che l'importanza di una lingua si misura anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come si sa, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. Perfino un quotidiano come Le Monde ne prendeva atto nel 1980, includendo la lingua italiana tra le possibili «lingue europee». Ma non è pensabile che si possa difendere la nostra lingua all'estero se non la si difende prima nel nostro Paese. Mentre viene ufficializzato l’uso di alcuni dialetti, l’italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Nessuna meraviglia, quindi, che la situazione linguistica non sia delle più rosee. L’anglicizzazione di seconda mano, la massiccia invasione dei gerghi tecnici, l’impoverimento idiomatico e la generale tendenza al ribasso culturale sono le manifestazioni più evidenti di un degrado che non avvantaggia nessuno ed anzi genera discriminazione ed esclusione.
Inoltre si è lasciato deperire un patrimonio linguistico secolare. Non poche parole italianissime sono cadute nel dimenticatoio, mentre è aumentata la tolleranza per gli anglicismi non assimilati, come check-up, imprinting, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Che fare? Oggi non siamo più ai tempi in cui la lingua italiana era monopolio di un’élite, facilmente tenuta a freno dall’Accademia della Crusca. Oggi l’italiano è diventato una lingua di massa, parlata da milioni e milioni di persone e in queste condizioni la stessa azione della scuola si rivela insufficiente, se non è sostenuta e confortata dal concorso di molti altri soggetti: mezzi di informazione, strutture economiche, governo. La latitanza delle classi dirigenti con la conseguente mancanza di un quadro di «politica linguistica» generale è stata decisiva per le sorti della nostra lingua, abbandonata ai modelli più deteriori: i volgarismi suburbani e le manipolazioni del «politicamente corretto».
Il costituendo Consiglio Superiore della Lingua Italiana è chiamato ad un compito arduo, che è quello di garantire qualità e unità alla nostra lingua, nella consapevolezza che si tratta di un bene culturale non meno importante di quel patrimonio artistico di cui andiamo orgogliosi.

I comitati scientifici previsti dal ddl dovranno svolgere un’attività di informazione e formazione della coscienza linguistica a tutti i livelli , ma con particolare riguardo agli «utenti influenti» della lingua: insegnanti, giornalisti, traduttori, addetti alla comunicazione pubblica, ecc. L’italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, e per questo è necessario uno sforzo comune.

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