RomaIl nome evoca bande criminali da tenebrosa fiction, odore acre di polvere da sparo, paura, intimidazione: Magliana. Ma oggi il quartiere sotto al livello del Tevere teatro dellassalto di domenica allinternet point bengalese di via Murlo è una periferia come tante della sterminata altra città. Quella dove tra il bene e il male passa un sospiro, e spesso nemmeno importa a nessuno. Quella che fa notizia solo quando uno straniero viene sprangato e tutti allora a gridare al razzismo: un altro titolo sui giornali, unaltra accorata dichiarazione di condanna, un altro corteo antirazzista.
La periferia di Roma è stata teatro negli ultimi anni di molti assalti a stranieri. Bengalesi, indiani, cinesi. Dietro ogni raid letichetta facile del razzismo; molto spesso il sospetto di uno sgarbo, di un regolamento di conti, di una lotta per la stessa fetta di torta. Alle volte un furto, unestorsione a una vittima facile, che probabilmente non sporgerà denuncia perché non vuole rogne, perché non ha il permesso di soggiorno, perché non parla bene litaliano. Un romanzo criminale, magari, ma non necessariamente una questione di pelle. Fu così il 24 maggio 2008, quando due negozi di alimentari e un «phone center» del Pigneto, il quartiere sulle rive dei binari, non lontano da Porta Maggiore, un tempo caro a Pasolini e oggi scena di un multiculturalismo per la verità molto «trendy», furono semidistrutti da un commando di giovani dai volti coperti. Allinizio si parlò di assalto neonazista. Poi si iniziò a parlare di un nero che faceva parte del gruppo di «mazzettari». Infine si fece vivo il capo del commando, un uomo quasi cinquantenne con un tatuaggio di Che Guevara sul braccio, che prima di costituirsi alle forze dellordine trovò il tempo di rilasciare unintervista a un quotidiano: «Nazista a me? Io sono nato il 1° maggio e al nonno di mia moglie i fascisti fecero chiudere la panetteria perché non aveva preso la tessera». Sciorinato il suo curriculum «de sinistra», Dario Chianelli raccontò di un portafogli rubato, di un litigio con un «indiano bugiardo», di una situazione sfuggita di mano. Insomma: una bega tra boss di quartiere risolta come si usa in questi casi, andando alle spicce. «Non centra la xenofobia, centra il rispetto». Un codice che in periferia, così come in tutti i luoghi marginali, vale più del colore della pelle. E secondo la cui logica si può allo stesso tempo scambiare due chiacchiere col senegalese che smercia cd taroccati sul marciapiede e rifornisce di titoli, e detestare il romeno che poche ore dopo sullo stesso marciapiede si ubriaca.
Insomma, come si fa a distinguere la xenofobia dalla microcriminalità? Certo, quando si racconta dellassalto ai romeni sprangati a Tor Bella Monaca nelle ore successive allomicidio di Giovanna Reggiani, ci sono pochi dubbi. Ma come si fa a capire che cosa passava per la testa dei cinque ragazzi che il 23 marzo 2009 a Tor Bella Monaca tirarono giù da un furgone un pakistano di 35 anni e lo tramortirono a forza di calci e pugni? Che cosa scatenò la furia di sei ragazzini che sempre a «Torbella» il 2 ottobre 2008 accerchiarono e massacrarono un cinese di 25 anni la cui foto con il volto tumefatto su un letto di ospedale fece il giro dItalia? In genere a far propendere per il gesto xenofobo è una frase: «Tornatene a casa tua!», gridata alla vittima di giornata. Se la sentì rivolgere un bengalese di 23 anni appena sceso da un autobus a Tor Pignattare e pestato da un gruppetto in cerca di portafogli: «Il mio cellulare era troppo vecchio, non gli piaceva. Lo hanno sbattuto per terra», racconterà lo straniero. Cè un pugno di soldi anche alla base dellaggressione a due nordafricani che nel novembre del 2008 al Trullo, non lontano dalla Magliana, si sentirono chiedere 5 euro per «poter continuare a camminare su quel marciapiedi» da alcuni bulli del luogo armati di cinte e caschi, arrestati poche ore dopo lassalto.
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