Duecento serate di spettacolo annue, circa 180 dedicate all'opera, le rimanenti al balletto. Teatro aperto tutto l'anno, platea esaurita, macchina sempre in movimento. Questo succede alla Deutsche Oper di Berlino, dove si riesce a coniugare la qualità della produzione alla quantità, grazie ad alti finanziamenti statali, ad un contenimento dei costi e alle coproduzioni con altri teatri; più le trasferte e le collaborazioni con l'estero.
Insomma, una ricetta niente affatto segreta, ma che in Germania funziona, qui no. Perché in Italia, lasciando da parte la Scala che fa vita a sé, arriviamo, in teatri come Bologna o Torino, sì e no alle ottanta serate annuali complessive? Cos'è che non funziona nelle nostre Fondazioni liriche?
Iniziamo con la voce «contenimento dei costi», anche se ci preme sottolineare che la questione non è meramente economica. Masse artistiche che rendono al massimo, sistema di alternanza nuova produzione/opera di repertorio, ossia incastro a pettine tra opere presentate per la prima volta e opere prese dal «magazzino» - quindi già pronte - tra quelle maggiormente più nella stagione precedente, in un calendario fittissimo di prove ed esecuzioni.
Poi l'ingrediente principe, una compagnia stabile fatta di giovani talenti con contratto a tempo che coprono i ruoli di comprimariato e che intanto si formano e imparano il mestiere.
Infine, una bella politica di marketing aggressivo, indirizzata al singolo spettatore. Qui si tratta di intelligente gestione finanziaria, unita ad una capacità organizzativa davvero «tedesca», se è lecita la battuta. Un meraviglioso circolo virtuoso che tiene in vita il teatro e la cultura.
Per carità, Genova non è Berlino; e soprattutto una è in Italia, l'altra in Germania. Ma anche facendo le dovute proporzioni, il confronto è imbarazzante. La questione è di natura, prima di tutto, culturale: in Germania, se non tutti, almeno la grande maggioranza della popolazione legge la musica. Qui da noi è già tanto se un adolescente sa che Beethoven è un compositore e non il cane San Bernardo eroe di un film di qualche anno fa. E per quanto riguarda l'impegno, aspettiamo un attimo a fare confronti con lo stipendio dei professori d'orchestra tedeschi! Il ritmo di lavoro in un'orchestra di Berlino farebbe probabilmente insorgere qualunque nostro sindacato, pur non sforando da ciò che è previsto dalla regolamentazione. Eppure lì si lavora meglio. Trenta ore settimanali in teatro, poi è chiaro: a casa si deve studiare, lì è impensabile arrivare al concerto con un passaggio non pulito.
Qui disponiamo di tanti validi professionisti, ma il lavoro «di squadra» non dà risultati particolarmente esaltanti: poche prove, mancanza di una guida stabile, scarso entusiasmo.
Aggiungiamoci che dentro il Carlo Felice infuria una perpetua lotta tra sindacati, dalla base fino ai vertici, che a tutto pensa fuorché al risultato artistico. E fioccano gli scioperi.
Lasciamo da parte l'intricata questione Fondo Pensioni e ripensiamo alle troppe recite saltate: se è vero che molti dei nostri artisti sarebbero disposti a lavorare di più, allora siamo costretti a pensare che il teatro sia nelle mani di quei pochi che alla resa dei conti non fanno che incrinare il rapporto tra pubblico e teatro.
Del resto non è un'invenzione che sia bastato uno spiffero del gelido gennaio genovese per costringere alla fuga un rispettabilissimo direttore d'orchestra. Forse questo ci deve far riflettere. Poi si penserà a cambiare tutto il sistema.
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