L’orologiaio vagabondo e le sorprese del tempo

di Luca Pavanel

Era un mese preciso di un anno qualunque. A che punto era il tempo, nel suo scorrere, si capiva dal rientrare delle giornate e dal loro sbiadire. Amilcare sorpreso dall’avvitarsi ventoso delle nuvole e per la partenza delle rondini, aveva cominciato la giornata con smorfie che parevano sorrisi, anche se la notte trascorsa alla Centrale fra bivacchi e giacigli s’era rivelata la più fastidiosa della settimana. Lassù, sotto la volta littoriana del principale scalo, momenti lunghi come clessidre per insopportabili schiamazzi di matte, signorini e polizia. Scarti di silenzio, le pause dei fracassoni, che lui censiva con ritmo preciso grazie all’istinto che gli era rimasto dell’orologiaio. «Per Dio! - aveva protestato verso un assente compagno di sorte e cartoni - qui in stazione una volta si stava come in un hotel di montagna per quanta tranquillità c’era, di notte i binari sembravano bare e lumini; adesso, invece, con questa gentaglia... Barbun ’va da via al cu’», concludeva arrabbiato in milanese. Amilcare, senzatetto nella città delle terrazze sul Nord.
LA CIPOLLA D’EPOCA
Transumanze a suon di carrello, masserizie da trasportare e una cipolla d’epoca con le lancette spezzate. Nel girovagare lento e sfaccendato questo uomo sentiva in fondo di voler cercare, ma non sapeva esattamente che cosa. Mangiare, mangiava nelle mense della carità; fermate intermittenti nei quartieri, ne faceva; la sua sosta preferita era il Castello, dove l’apparizione degli zampilli della fontana lo riempiva di gioia come un ragazzo. «Che allegria...», sospirava assonnato guardandosi allo specchio dei bagni pubblici. Barba bianca e capelli lunghi da artista, strati di magliette e un soprabito che pareva un saio, laghi vacui di occhi verdi; se il Creatore gli avesse voluto spalmare addosso un colore sarebbe stato sicuramente l’azzurro. E il suo tratto distintivo? Era la passione per i libri e la lettura, tanto che nelle biblioteche rionali lo avevano conosciuto un po’ tutti, e un po’ tutti ci avevano giocato una volta. «Amilcare, qual è la miglior osteria?», gli domandava un’archivista di viale Tibaldi.
LA BIBLIOTECA SORMANI
Spesso andava alla Sormani, zona largo Augusto. Al mattino entrava nell’atrio e negli sguardi indifferenti di custodi e studenti, claudicante percorreva i corridoi; s’accomodava nella sala lettura circondato da tomi e atlanti sotto la scritta cubitale SILENZIO, e assieme agli universitari se ne stava lì fino a tardi, lui più che altro a divagare e a sentirsi al riparo dai vampiri del mondo. «Dammi l’enciclopedia universale che oggi mi studio il tempo, che io ero meccanico dei cucù e mi piacevano le previsioni del colonnello Bernacca in tv. Io in quelle cose lì ci capisco, io...». Alla richiesta della persona mal in arnese il bibliotecario del salone non battè ciglio e fece il suo mestiere. Amilcare ai banchi cominciò a guardare e sfogliare. Definizioni su precisazioni e strumenti, teorie, misure, paradossi; che cosa ci capisse... Il Dio del Tempo? Con il dito che teneva le righe, lo straccione ripeteva le parole lette: «Nell’antica Grecia il Dio del tempo era Zeus». E lui si divertiva: «Tuoni, saette, fulmini...»; poi dell’oggetto di studio la definizione: «È la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi». E lui scuotendo la testa per l’ammirazione verso tanta sapienza: «Si fa presto a dire tempo...passato, presente, futuro».
Tutto gli sembrava girare un po’ in quella sala lettura, forse aveva bevuto troppo cordiale; sì, dalla bottiglietta che gli aveva dato il suo amico droghiere di porta Vigentina, Primo, che ironia della sorte gli aveva raccomandato, riguardo al regalo: «Ogni cosa ha il suo tempo». Ma era il momento per leggere e non di tracannare, dunque...
IL SENSO DI DIO
«Sensorium Dei, senso di Dio», diceva lo scienziato Newton, «che scorrerebbe immutabile, sempre uguale a se stesso». In tutte quelle profondità e vastità delle idee, Amilcare cominciò a vacillare e a perdersi. L’incedere del pomeriggio e la stanchezza fecero il loro mestiere, mescolati come erano agli effetti dell’alcol. Sollevato il naso dalle pagine l’anziano si lasciò andare a fantasticherie scrutando un po’ qua e un po’ là quelle belle fatine di studentesse che anche quando era giovane non aveva mai potuto avvicinare. In risposta nessuno lo degnava di un sguardo. Ed è lì, che nello strano gioco di certe solitudini così vertiginose da diventare fuori scala, che l’essere umano cominciò a immaginare il suo tempo, di parlarci persino insieme, come a un amico.
Amilcare: «Io c’ho tempo per giocare con il tempo». (scherzando buttò là).
Tempo: «Sì ci siamo, Amilcare, i tuoi secondi, ti sentiamo». Non realizzò subito che le voci erano vere, per cui continuò nel suo gioco.
A: «Ah, e che fate che fate?».
Tm: «Ti guardiamo e ti troviamo simpatico, molto divertente».
A: «Cioé? Che cosa volete dire...».
Tm: «Siamo contenti di stare con te, di tenerti compagnia».
A: «Ma io sono buono a niente, forse non le merito, non faccio nulla...».
Tm: «E allora meglio te di altri che per niente se la tirano anche troppo; sono tanti lo sai?» (risata dei secondi).
Di quella conversazione Amilcare, all’improvviso, rimase sorpreso, a dir poco spiazzato; più trascorreva il silenzio più si sentiva basito: era tutto un scherzo no? Era come se il dialogo procedesse per conto suo, che esistesse veramente e che non potesse fermarsi perché quei parlanti (come altro definirli) lo tentavano come mitologiche sirene. Che assurdità, eppure da quel paradosso sentiva di esserne attratto. E a quell’uomo in biblioteca, guardandosi di nuovo intorno, all’improvviso sembrò che la gente lo ignorasse in maniera ancora diversa. Più lentamente, tutti fermi come statue di pietra, senza l’atmosfera terrestre di ossigeno-azoto che c’è quando gli esseri viventi respirano naturalmente. E il dialogo riprese.
Amilcare: «Ehi voi, ci siete ancora...». Spiritato, occhi spalancati: si spaventò al non sentire la voce, la cui idea al tempo stesso continuava a fagocitarlo. Incosciente riprovò.
A: «Ma dove caz...siete finiti» (quasi rabbioso).
Tm: «Siamo qui, il tuo tempo non ti lascia mai» (in coro).
A: «Logico, se la persona c’è il suo tempo è con lui...» (beffardo ma stentato).
Tm: «Non tutte le cose sono come ti vengono spiegate o ti appaiono».
A: «Per esempio...».
A quel punto l’uomo dubitò di essere ancora in sè.
Riprese a studiare il panorama in cui le sue immaginazioni ormai spadroneggiavano. S’accorse che le figure intorno piano piano sbiadivano. I rossi tendevano ai rosa, i blu agli azzurri, i neri ai grigi e così via. Anche le figure di quelle belle fatine non erano più uguali. L’incubo dei colori diventò un sogno con la minigonna di una ragazza che alla vista si accorciava, la mani di un’aspirante mannequin all’improvviso leggere come farfalle; la labbra arancioni di una giovane studiosa diventate gialle. Ma che rossetti fanno oggi... Amilcare, spaventato, si sentì chiamare.
Tempo: «Non ti preoccupare, in questi casi è normale».
Amilcare: «Ma perché vi sento? Sento voci, sono povero e mi sembra di essere pure matto...».
Tm: «Normale che sia così quando s’incontra il proprio tempo...».
A: «Ma non capisco che cosa volete dire, forse sarà stata veramente quella boccetta di cordiale...».
Tm: «Rilassati, rilassati amico nostro, all’ultimo minuto capirai!» (le voci si allontanavano).
IL SUONO DELLA CAMPANELLA
La campanella annunciò la chiusura della biblioteca. Ore 19.15: nell’indifferenza generale Amilcare, stordito e stupefatto per l’insolito pomeriggio, guadagnò l’uscita accodandosi agli studenti diretti alla spicciolata verso il portone. Dall’ingresso a largo Augusto e poi su, a sgranare come un rosario le tante luci dei negozi chic di via Durini. San Babila, magie della serata, la piazza, la gente, lo shopping delle signore milanesi coi loro quadranti in oro. E il teatro con le sue centinaia di lampadine intermittenti. Tutto, per lui, era e non era e davanti al dipinto urbano di benessere e frenesia si sentiva sempre di più sullo sfondo, senza consistenza e incolore. «Ma che giornata tremenda - bofonchiò -. Quel cordiale me l’ha fatta peggio di una bottiglia di whisky». Pur di sfuggire all’incubo del Pendolo anelava l’incubo del dormitorio. «Andrò dove c’è l’orologio del refettorio, dormirò là», tra sé e sé quasi col timore che qualcuno gli rispondesse. E invece... non solo voci anche entità...
Amilcare: «Sono matto! Sono diventato matto!».
Tm (in coro): «Finalmente ci siamo trovati e ora ti spieghiamo quel che sui libri non hai trovato...».
A: «Pazzo e niente di diverso; non mi fate perdere tempo». Nessuno al mondo si era mai dato la briga di rappresentare il tempo se non nell’antichità; figure prima formule matematiche poi.
I SOGNI DELL’INFANZIA
Per Amilcare il tempo fece un’eccezione e per non spaventarlo di più si presentò in forma di salsicce luminose allungate, chiodini di chewing gum fosforescenti, stringhe di zucchero a bagliori; un modo per rallegrarlo, con qualcosa di familiare, tipo i sogni di cose buone nell’infanzia.
Tm: «Quando un uomo incontra il suo tempo per lui è l’Ora».
A:(scherzando) «Ma queste cose succedono anche a Milano, perbacco...».
Tm: «Dappertutto le persone incontrano il loro tempo e quando accade il tempo non è più denaro, non dà più consigli, non scopre ogni cosa, non consuma, non rode, non matura le sorbe, il tempo diventa solo di chi gli appartiene». Amilcare, nell’oscurità di una città che in corso Emanuele si accendeva come un capodanno, si sentì trasparente e lontano dalle persone. Ognuno, vicino a lui, era occupato in qualcosa di altro e aveva il suo cronometro. Chi correva per l’amata, altri si fermavano per la multa, altri ancora per vivere, c’era qualcuno che era in attesa di farlo. Il senzatetto, che di tempo ne aveva più di tutti, si fermò alle 21.04 sotto i portici di piazza Diaz, con la possibilità concessa dalla clessidra di un’ultima chiacchierata con i suoi «immateriali» dei quadranti del mondo.
Amilcare: «Me l’avete fatta come il cordiale...

»
Il Tempo: «Te l’avevamo detto che avresti capito, benvenuto!»
A: «Ma perché io, oggi, a quest’ora?».
Amilcare non sembrava tanto convinto ma non esitò a prendere il suo tempo. Ora che i minuti erano quelli che erano, da buon milanese volle dire la sua sull’ultimo Istante: «’Va da via al cu’».

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